Basta con gli annunci a affetto, se si vuole davvero mettere in cantiere una riforma fiscale, bisogna cominciare dal costo del lavoro. Negli ultimi giorni è stato un susseguirsi di voci su ipotetici tagli pro tempore dell’Iva, per ridare fiato ai consumi. Ma al Tesoro non sono tanto d’accordo, meglio lavorare sul cuneo fiscale. Solo petardi o vera volontà politica? E in ogni caso, con quali soldi finanziare la riforma? Il governo italiano, che numeri del Fmi alla mano, chiuderà il 2020 con un rapporto debito/Pil al 166% si appresta a chiedere al Parlamento un nuovo scostamento di bilancio da 10-20 miliardi. Finanziare l’intera riforma a deficit è impensabile. E allora? Domande girate direttamente a Fiorella Kostoris, economista e accademica di lungo corso.
Kostoris, prima gli annunci sull’Iva, ora si va nella direzione di un intervento sul costo del lavoro. Me lo dice cosa bisogna fare?
La priorità è il taglio del costo del lavoro. L’occupazione finora è stata preservata dalla Cassa integrazione, ma col passare dei mesi questa rete di protezione andrà via via esaurendosi e allora ci si dovrà porre il problema di come proteggere l’occupazione. Per questo un taglio al costo del lavoro è la prima cosa da fare. In più si tratta di un’esigenza non solo momentanea, ma strutturale perché il lavoro è qualcosa di meno mobile rispetto ad altri fattori di produzione. Sia per ragioni strutturali sia per ragioni congiunturali dunque è prioritario intervenire sul cuneo fiscale, in particolare sull’Irpef e sui contributi sociali.
L’idea che circola al ministero dell’Economia è una rimodulazione dell’Irpef…
Sono abbastanza d’accordo. L’imposta principale sul lavoro è l’Irpef, e in un sistema come quello italiano dove i lavoratori sono stretti tra tagli all’occupazione e bassa dinamica salariale mi pare la scelta più giusta. Per quanto riguarda i contributi sociali a carico delle imprese, vale la pena di ridurli per incentivare la domanda di lavoro. Lo svantaggio qui è che questo può implicare decurtazioni dei benefici pensionistici basati sui montanti contributivi. Un taglio dell’Irpef aumenta il potere d’acquisto dalla parte dei lavoratori, ma una diminuzione dei contributi sociali ha un effetto diretto sui costi per l’impresa. Per questo suggerisco un intervento su ambo i fronti, Irpef e contributi sociali.
Il governo fin qui si è limitato a degli annunci. Forse sarebbe il caso di agire…
Questo è proprio quello che va evitato, la politica degli annunci. Sbagliato in questo momento comportarsi così. Ma c’è un altro errore, al netto di quello sulla comunicazione. E cioè che non bisogna fare tagli fiscali temporanei e non vale solo per l’Iva, bensì anche per esempio per l’Irap, il cui taglio si può rendere permanente. Riduzioni una tantum di imposte provocano effetti temporanei, e talora effetti negativi. Un taglio a tempo dell’Iva potrebbe indurre ad anticipare certi consumi non a consumare permanentemente di più. Un decremento temporaneo dell’Irpef avrebbe conseguenze simili. C’è però un terzo aspetto sempre inerente a una vera e organica riforma fiscale.
Sarebbe?
Che non si possono utilizzare le risorse concesse dall’Europa per finanziare una riforma fiscale permanente. Inizialmente era saltata fuori questa idea, ma i soldi dell’Europa vanno usati per gli investimenti, lo dice l’Europa stessa. Al massimo il Sure potrà servire come forma di riassicurazione europea a copertura del sussidio di disoccupazione italiano, fornito sotto forma di Cig (in Germania c’è un meccanismo simile, chiamato di Kurz Arbeit). E allora ci si pone il problema di come finanziare questa riforma.
Si potrebbe fare in deficit? O no?
Non necessariamente. Si può procedere a tagli della spesa pubblica, per esempio nel settore complesso e poco organico dei trasferimenti alle imprese. O si può rimettere mano al sistema delle detrazioni di imposta. Ricordiamoci sempre che ci sono forme di pulizia di spesa che possono fruttare risorse da impiegare nella riforma fiscale.
Kostoris i nostri conti pubblici sono quasi allo stremo. Abbiamo già superato il punto di non ritorno?
Il nostro debito pubblico continua a essere sostenibile finché ci sono condizioni, come un avanzo primario e un tasso di crescita nominale del Pil superiore ai tassi di interesse sui titoli pubblici. Se queste condizioni sussistono, anche se il debito è alto, rimane sostenibile. Il problema è che adesso abbiamo un rapporto debito/Pil tra il 160 e il 170% del Pil: con tale livello e un’assenza di avanzo primario siamo vicini all’insostenibilità. L’importante è dunque ripartire con una ripresa vigorosa che ci porti lontani dalla crisi dovuta alla pandemia, dalla recessione che già esisteva in Italia a inizio 2020 e dal più generale ristagno presente nel nostro Paese da molti anni. Perciò una politica fiscale nella giusta direzione, insieme alla politica monetaria accomodante della Bce, diventa essenziale.