“Inevitabilmente, rapporti economici più intensi portano a una maggiore integrazione politica e strategica” tra Cina e Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Ed è altrettanto “inevitabile che la Cina, che cerca la convivenza pacifica e la cooperazione economica fra Stati, giochi un ruolo sempre più centrale” in quelle aree. A sostenerlo è Jia Qingguo, professore ed ex dean della Scuola di studi internazionali dell’Università di Pechino e membro del comitato permanente e del comitato Affari esteri della Conferenza politica consultiva del popolo cinese.
Il Prof. Jia è stato ospite del quarto appuntamento del “China in the Mid-Med”, un ciclo di incontri organizzati da Tel Aviv University e dal ChinaMed, un progetto del Center for Mediterranean Area Studies dell’Università di Pechino e del Torino World Affairs Institute, parte del TOChina Hub sviluppato dall’Università di Torino. A condurre i lavori (di cui Formiche.net è media partner esclusivo), Enrico Fardella, professore associato del dipartimento di storia dell’Università di Pechino, il professore Ori Sela, direttore del dipartimento di East Asian Studies della Tel Aviv University, e il professor Brandon Friedman, director for research del Moshe Dayan Center della Tel Aviv University. Ospiti degli appuntamenti precedenti sono stati: Efraim Halevy, ex direttore del Mossad; Deborah Lehr, vicepresidente e direttore esecutivo del Paulson Institute; l’ex premier Romano Prodi e Justin Lin Yifu, ex vicepresidente della Banca mondiale oggi dean dell’Institute of New Structural Economics all’Università di Pechino.
Secondo Jia Qingguo ci sono due tipi di approcci statunitensi alla Cina. C’è chi vuole contenere la Cina vedendola come una minaccia per gli Stati Uniti. Chi vuole, invece, cooperare. In particolare, tra questi ultimi c’è chi, approcciando il Dragone da un’ottica ideologica e valoriale, pensa che l’apertura economica possa rendere la Cina “più liberale se non democratica”. Ma nonostante le differenze, secondo Jia Qingguo, sta emergendo un sempre più netto consensus a Washington che porta gli Stati Uniti a essere “duri” nei confronti della Cina.
Al centro della chiacchierata, anche la Via della seta (Belt and road initiative) che, secondo Jia Qingguo, “è un’iniziativa, non una strategia geopolitica” del governo cinese, “come certe persone a Washington pensano”. “Ovviamente la Cina spera che tutti abbraccino la Via della seta”, dice. Ma è qualcosa che Pechino incoraggia a fare, non obbliga nessuno a farne parte. precisa ancora il professore. Per Jia Qingguo è proprio l’approccio agli altri Stati sulla Via della seta una delle maggiori difficoltà che Pechino sta riscontrando. Difficoltà crescenti in questo specifico momento di transizione.
Ecco il video completo dell’intervista in cui Jia Qingguo analizza il confronto politico, economico e culturale tra Usa e Cina ma anche la crisi di Hong Kong. A proposito della quale, denunciando le violenze degli attivisti per la democrazia, dice: “Il ruolo di Hong Kong come hub finanziario sta cambiando”, visto che ora non è il solo centro della finanza cinese: “Ora la Cina ne ha tre”: Hong Kong, Shanghai e Shenzhen. Ma, anche con la nuova legge sulla sicurezza (contestata dagli attivisti pro democrazia così come da molti Stati occidentali che la ritengono la pietra tombale sul meccanismo “un Paese, due sistemi” che dal 1997 garantisce all’ex colonia britannica a una certa autonomia), “la Cina sta facendo tutto il possibile per sostenere Hong Kong”. E il successo di Pechino, conclude Jia Qingguo evocando “la stabilità” dell’ex colonia britannica, dipenderà anche dagli Stati Uniti di Donald Trump e dalla loro capacità di non seguire logiche da guerra fredda (in cui “la Cina non si ritrova”) alimentate da questa amministrazione di Washington, in particolare dal segretario di Stato Mike Pompeo.
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