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Un’Europa unita. Ecco cosa serve per la Libia (e non solo). Conversazione con Varvelli (Ecfr)

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Con un video-messaggio registrato, il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha salutato gli ospiti dell’evento organizzato dalla Fondazione Corriere due giorni fa: un ricordo cinquantennale dei decreti di confisca del 21 luglio del 1970, quando Muammar Gheddafi sanciva l’espulsione di 15 mila italiani residenti in Libia come rivalsa come gli ex-colonizzatori. Il titolare della Farnesina, ricordando quanto “la memoria va coltivata con azioni concrete”, ha poi concentrato il suo intervento sulla situazione attuale.

La conflittualità endemica, il peso degli attori stranieri, il rischio dell’instabilità libica nel delicatissimo contesto regionale, le sfide per l’Italia sull’altra sponda del Mediterraneo. Di Maio ha parlato di “esperienza umana del popolo italiano in Libia”, di “profondi legami” e di “incessante impegno” di Roma per raggiungere una stabilizzazione, che il ministro italiano ripete continuamente può passare solo dalla soluzione politica, con la necessità “cruciale” di riaprire la produzione petrolifera.

In una conversazione con Formiche.net, Arturo Varvelli, tra i relatori dell’incontro organizzato dalla fondazione e direttore dell’ufficio romano dell’Ecfr, ha fatto il punto dello stato dei fatti riguardo al dossier libico – di cui è uno dei massimi esperti internazionali. “La situazione non è stabilizzata, come sappiamo. Temo per i prossimi mesi, perché siamo davanti alla possibilità concreta che una qualcosa di positivo possa essere raggiunto, ma anche al rischio che tutto possa degenerare”, spiega Varvelli.

C’è una grande sensibilità che riguarda lo scontro tra attori esterni: Turchia sul lato di Tripoli, Egitto su quello della Cirenaica (con la presenza di Emirati Arabi e Russia sullo stesso fronte). E ultimamente s’è concretizzata la possibilità che anche il Cairo sposti truppe in Libia in risposta all’assistenza militare turca che ha permesso al governo onusiano Gna di obliterare la ambizioni di Khalifa Haftar, signore della guerra dell’Est che voleva intestarsi il Paese come nuovo rais. “Non credo che l’Egitto entrerà in Libia, al massimo potrebbe muovere truppe in Cirenaica e rafforzarsi lì, in continuità geopolitica col proprio territorio. Ma dobbiamo essere consapevoli che comunque c’è un rischio di miscalculation ed è molto pericoloso”, spiega Varvelli.

E una spinta francese dietro l’Egitto? “Mi auguro che la Francia si allinei su una posizione più europea e meno eccezionalista. Perseverare dietro Haftar, come fatto in forma non ufficiale finora, non penso che sia una soluzione per Parigi”, Varvelli risponde a una domanda spinta di chi scrive, che allude a una posizione ambigua da sempre tenuta dalla Francia sull’allineamento cirenaico, e ora in fase di revisionismo. Vettore narrativo con cui Parigi intende addossare le colpe della destabilizzazione alla Turchia: su queste colonne la posizione francese è stata criticata in modo articolato da Karim Mezran dell’Atlantic Council e Federica Saini Fasanotti della Brookings.

Varvelli spiega: “Tra l’altro all’interno del governo Macron ci sono posizioni diverse. Il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, ha una visione securitaria (è stato già ministro della Difesa, ndr), mentre i consiglieri della presidenza sono molto più politici e comprendono più sfumature, per cui spesso non sono d’accordo con gli Esteri”.

L’analista italiano fa notare un elemento: in Libia attualmente non c’è un mediatore, un attore più forte degli altri in grado di dirigere gli equilibri. Quando si parla di questa assenza si fa spesso riferimento al disinteresse degli Stati Uniti, che non hanno intenzione di aumentare il livello del coinvolgimento, sebbene abbiamo recentemente preso posizioni più assertive, ma soltanto per quanto riguarda l’intollerabile presenza russa. “E poi – aggiunge Varvelli – Russia e Turchia non sono ancora in grado di stabilire la pace, perché non hanno proiezioni di potenza sufficienti. Anche per questo credo che c’è uno spazio per l’Europa, ammesso che sia compatta”.

Nei giorni scorsi, russi e turchi si sono incontrati e hanno raggiunto un accordo di massima per implementare un delicato cessate il fuoco, ma la sensazione è che Mosca in Libia – a differenza di quanto avviene in Siria – non abbia la capacità di controllare gli attori che si muovono sul suo stesso lato, come Egitto ed Emirati Arabi, o Haftar. Il direttore del think tank paneuropeo a questo punto suggerisce la possibilità che nella crisi il ruolo di mediatore forte sia interpretato da Bruxelles.

La Libia è un dossier interessante proprio per questo. Perché è un test per le capacità dell’Europa e dei paesi europei di muovere dinamiche di politica estera. Se congiunta, quella politica estera che uscirà sulla Libia sarà una prova di unità; se spacchettata a indirizzata a interessi nazionali diventerà la prova che ancora l’Ue in questo senso è tutt’altro che matura. “Mi pare di capire – spiega Varvelli – che la Germania dopo aver chiuso il pacchetto sul Recovery Fund potrebbe ridare un input su politica estera e difesa. Anche perché ci troviamo in una fase di transizione importante del sistema internazionale, nella quale flussi economici e commerciali, proiezioni e catene di valore, posture e meccanismi sono tutti messi sotto stress: dunque o l’Europa si rafforza o viene schiacciata”.

“Inoltre a me pare – continua – che comunque questo sia stato capito, sia a Berlino che per esempio a Roma. Il ruolo di junior partner italiano all’Euco è stato apprezzabile, così come, per fare un altro esempio, la mediazione messa in atto in questi giorni dalla Germania tra Grecia e Turchia per sedare la crisi di Kastellorizo. Vedo Berlino agire come un egemone inclusivo, una forma nuova, più coinvolta che cinque anni fa non mi sarei immaginato. Invece la Francia per sue concezioni esistenziali fatica di più ad allinearsi. Ha l’ambizione eccezionalista, anche dovuta al vantaggio strategico concesso dalle maggiori capacità militari. Parigi vorrebbe avere un’Europa forte, su cui però essere leader in grado di veicolare i processi. Se per la Germania l’inclusività è una forza, per la Francia è vista come una limitazione, una rinuncia”.

Se quella uscita dal Consiglio europeo con il Recovery Fund è la forma di UE post-Covid dal punto di vista economico, qualcosa del genere dovrà riguardare la proiezione esterna, anche perché secondo Varvelli è arrivato il momento che Bruxelles si schieri su questioni strategiche profonde – “e mi pare che lo stia facendo scegliendo un rafforzamento della linea transatlantica, in allontanamento dalla Cina”. “È ancora da comprendere cosa succederà in Nordafrica – dice il direttore dell’Ecfr – ma con il loro semestre, i tedeschi, che hanno messo la faccia sula Conferenza di Berlino, non vorranno mandare in malora il processo, ma anzi ripartire da lì”.

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