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Riapertura dei pozzi e rafforzamenti militari. Fotografia libica di Varvelli (Ecfr)

difesa

“Abbiamo sempre ritenuto che fosse inaccettabile affamare la popolazione libica, che merita invece un futuro libero e democratico”: è il commento con cui il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha accolto la decisione dei ribelli libici di riaprire i pozzi petroliferi nel Paese. Il blocco era stato attuato il 17 gennaio per opera di unità armati tribali fedeli al capo-miliziano ribelle Khalifa Haftar; in quegli stessi giorni, a Berlino si svolgeva una conferenza internazionale per la pace che dovrebbe essere ancora la linea da seguire per stabilizzare il Paese, in quanto concordata tra gli attori esterni che si muovono attorno al conflitto.

Nella realtà dei fatti, sono successe molte cose in questi mesi: tra cui la principale è stata la ritirata haftariana della Tripolitania e l’arretramento in Cirenaica che ha stigmatizzato la strutturazione in blocchi nel Paese. Il 10 luglio – anche attraverso la continua interlocuzione italiana, il lavoro del governo onusiano Gna e le pressioni americane – i pozzi erano stati già riaperti, salvo poi essere richiusi meno di ventiquattr’ore dopo. In mezzo, un’interferenza russa: uomini della società privata Wagner, schierati dal Cremlino per il lavoro sporco (nel caso il sostegno alle forze ribelli dell’Est libico), avevano invaso alcuni campi.

In realtà ci sono ancora elementi di dubbio sulla riapertura: non è chiaro ad esempio se le esportazioni, reale ricchezza del popolo libico, saranno permesse. La dichiarazione del comandante delle Guardie petrolifere parla della possibilità di utilizzare il carburante e il gas immagazzinato per far fronte alle carenze di elettricità che colpiscono tanto l’Est quanto l’Ovest (la situazione all’Est stava diventando pesante, e forse anche per evitare ulteriori problemi con la popolazione della Cirenaica, che ha sofferto le perdite al fronte tripolino, Haftar ha deciso). E il capo della milizia che controlla i campi come una mafia, e che ha più volte cambiato casacca negli anni (ora chiaramente indossa quella haftariana), non ha fatto menzione della possibilità di riavviare le produzioni – che hanno un potenziale da 1,2 milioni di barili, attualmente ridotto a 90mila giornalieri (tra l’altro, potenzialità teoriche, perché i pozzi fermi potrebbero aver subito pesanti danni, e anche a questo si lega la decisione di riaprirli).

“Nelle ultime settimane la situazione si è avviluppata ulteriormente. Entrambi i lati si sono rafforzati, e soprattutto in Tripolitania, con quella visita turco-qatarina, c’è stata la formalizzazione di un legame diventato ormai stabile sul piano militare, che diventerà strutturale, tutt’altro che un’alleanza temporanea”, spiega a Formiche.net Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio di Roma dell’Ecfr, tra i massimi esperti sul dossier libico a livello internazionale.

Il direttore del think tank paneuropeo si riferisce alla visita congiunta dei ministri della Difesa di Ankara e Doha che nei giorni scorsi hanno stretto i colloqui riguardo la stabilizzazione di due basi militari (una aerea e un’altra navale) in Tripolitania e riguardo all’inizio di un programma di training alle forze del Gna. “Anche dall’altra parte i legami si stanno stringendo, comunque. A questo punto, quello che vedo con massimo realismo, non senza timori chiaramente, è che il paese è diviso in due. Per questo mi sembra che la mossa degli haftariani sui pozzi sia parzialmente distensiva, ma anche frutto di pressioni internazionali. Soprattutto immagino da parte di Washington e Abu Dhabi, che hanno interesse al quadro energetico”.

Dunque il capo del fronte ribelle è stato forzato, costretto? “Beh, immagino di sì. Consideriamo che l’unica cosa a tenere formalmente ancora unito il Paese è proprio la questione petrolifera. La Comunità internazionale, dove vedo attiva la Germania con qualche idea (ed è positivo) e gli Stati Uniti, hanno portato Haftar alla decisione, su cui è chiaro vedremo che evoluzioni ci saranno”. Con quale futuro possibile? “Difficile dirlo, chiaramente. Non mi aspetto grandi cambiamenti: ma credo che a questo punto sia utile ragionare su qualche iniziativa che garantisca l’unità formale del paese, sebbene diviso de facto, e pensi a una ridistribuzione su ambo i lati dei proventi del petrolio”.

“Chiaramente – aggiunge il direttore – è sciocco pensare che chi abita in Cirenaica non possa godere dei proventi del petrolio, creando tra l’altro i presupposti affinché la regione diventi pericolosamente dipendente dai finanziamenti emiratini”. Secondo Varvelli, proprio la ridistribuzione dei proventi potrebbe essere l’elemento utile per smuovere le due parti a tornare a sedersi a un tavolo di trattative comune.

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