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Bielorussia, cosa succede nel Paese in bilico tra Est e Ovest. L’analisi di Andrea Carteny

In un precedente contributo apparso su Formiche.net un’efficace sintesi poneva l’accento su due elementi emersi nei giorni scorsi riguardanti la complessa relazione tra Lukashenko e Putin: mentre il presidente bielorusso annunciava l’accordo di un miliardo di dollari messo a disposizione da Mosca per il rifinanziamento del debito dovuto da Minsk (importante boccata d’ossigeno per il governo bielorusso, dunque, in settimane di costante deprezzamento della propria moneta nazionale), il presidente russo dichiarava di aver costituito una task force russa per il mantenimento dell’ordine in Bielorussia. Sul complesso rapporto (non solo di amore) che lega Minsk a Mosca si gioca infatti l’equilibrio geopolitico tra Ue e Russia.

Lukashenko, in qualche modo traballante al potere dopo la contestata elezione dello scorso 9 agosto, sembra disposto a tutto – o quasi – pur di rimanere in sella, mentre Putin – deciso a non permettere che la Bielorussia cada nella sfera di influenza occidentale – pare non escludere soluzioni alternative a Lukashenko, purché garantiscano l’allineamento a Mosca di Minsk. D’altronde negli ultimi tempi, fino alla vigilia delle elezioni, erano emerse delle evidenti “crepe” nel rapporto quasi fraterno tra Putin e Lukashenko: ancor prima che avvenisse l’arresto dei contractor russa del gruppo Wagner (accusati di complottare contro il presidente Lukashenko), alla vigilia della tornata elettorale, vari ambienti moscoviti erano stati considerati di supporto alle diverse anime dell’opposizione che montava nella scorsa primavera.

In vista delle elezioni previste per questo agosto, infatti, si è innescata la miccia della “rivoluzione della pantofola”, o della ciabatta “anti-scarafaggio”, come nella popolare storia del mostro Tarakanishche. Lo scarafaggio gigante, protagonista cattivo di una popolare fiaba russa scritta e diffusa del poeta Korney Chukovsky all’inizio degli anni Venti, è diventata l’immagine del presidente-dittatore nella campagna anti-Lukashenko del businessman e attivista noto blogger Siarhei Tsikhanouski (in russo Sergei Tikhanovsky), che ha girato il Paese raccogliendo l’insoddisfazione della gente e pubblicando interviste contro il regime su YouTube. Come Tsikhanovski, poi arrestato, anche le altre personalità che hanno presentato la propria candidatura alle presidenziali sono state messe fuori gioco – e in generale accusate di essere al servizio della Russia -: in arresto il banchiere e filantropo (filorusso) Viktar Babaryka (in russo Viktor Babariko), escluso per numero insufficiente di firme raccolte (e poi fuggito in Russia per evitare l’arresto) l’ex diplomatico e noto imprenditore dell’hi-tech Valery Tsapkala (in russo Tsepkalo). Rimanevano a tenere il testimone per un’alternativa al regime la moglie di Tsikhanouski, Svetlana, la moglie di Tsepkalo, Veronika, e Maria Kalesnikava (in russo Kolesnikova), attivista e già capo della campagna elettorale di Babarika. Rimasta unica candidata alternativa, Sviatlana Tsikhanouskaya ha raccolto su di sé il sostegno di una parte considerevole del Paese, per popolazione grande quanto l’Ungheria (9 milioni e mezzo di abitanti) ma esteso (200 mila kmq, geopoliticamente chiave tra i paesi baltici, la Polonia e la Federazione Russa), con importanti aree urbane (Minsk conta quasi 2 milioni di persone) e soprattutto con un alto “indice di sviluppo umano” (Human Development Index, al 50esimo posto per HDI, dunque con alti livelli per aspettativa di vita, educazione, Pil pro capite).

Intanto anche la scorsa domenica migliaia di persone (si parla di 100 mila) si sono radunate nelle piazze, in particolare nella capitale, scandendo slogan contro il presidente e sventolando la vecchia bandiera bianca-rosso-bianca. Lui, il presidente, festeggiava 66 anni diffondendo la sua foto piazzato di fronte al palazzo presidenziale con giubbotto antiproiettile e carabina: loro, uomini e soprattutto donne bielorusse, occupavano lo spazio fisico delle piazze per costringere il presidente a un cambio, rinunciare al mandato o ripetere le elezioni. La copertura dei media, però, comincia ad essere più difficile: il governo ha infatti dato una stretta agli accrediti stampa colpendo in particolar modo i giornalisti stranieri, a molti dei quali non è stato permesso l’ingresso nel paese. Durante le manifestazioni continuano alcuni arresti ma per il momento la partecipazione massiva, spesso di donne, suggerisce in qualche modo di mantenere il livello di repressione al minimo, evitando interventi troppo pesanti.

Il Paese, dopo anni di amministrazione Lukashenko, sembra in qualche modo arrivato al punto di non ritorno. Da una parte la stagnazione economica è infatti diventata crisi profonda (anche in ambito sanitario) anche a causa del Covid, in questo caso per la mancata applicazione (criticata anche da Mosca) di norme per il contenimento dell’epidemia (Lukashenko stesso, convinto negazionista del Covid, sarebbe stato colpito dal virus a suo dire superato facilmente “stando in piedi”). D’altra parte il discreto consenso della gente, fatto di rassegnazione e trasversale nelle fasce della società ma particolarmente impersonato dalle classi medie – che in precedenza aveva permesso a Lukashenko di mantenersi al potere con politiche autoritarie in cambio di sicurezza sociale e buoni standard di vita per l’Europa orientale – dopo un quarto di secolo risulta in qualche modo inesorabilmente indebolito dalla distonia tra le “vecchie” pratiche del regime post-sovietico (come con il blocco di internet imposto durante le operazioni conclusive delle elezioni) e le esigenze i mezzi delle “nuove” generazioni, ben integrate nel mondo digitale e dei social network.

In questo contesto, come da alcuni ben osservato, le prime manifestazioni sembravano più simili all’opposizione anti-Putin in Russia che al movimento di rivoluzioni colorate di Georgia e Ucraina. D’altro lato i nazionalisti (e primi indipendentisti) bielorussi vantano il governo in esilio di più lunga data (la Rada della prima repubblica democratica, costituita con il supporto tedesco nel 1918 e dal 1919 attiva all’estero, ben ramificata in Usa e Canada) e rivendicano il rilancio nazionale attraverso la lingua (il bielorusso, poco utilizzato rispetto al più diffuso russo) e la bandiera dell’indipendenza della primavera ’18 (ripristinata solo per 4 anni dal 1991), diventati i simboli di un Paese che tenta di trovare una strada di equilibrio tra occidente e oriente, tra Europa ed Eurasia.

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