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Missili in amicizia. Cosa c’è dietro la fornitura degli Usa a Taiwan

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Da Washington DC in arrivo una nuova fornitura militare diretta a Taiwan. Nei giorni scorsi la Cina aveva alzato la pressione psicologica sull’isola piazzando i nuovi missili nelle basi costiere che affacciano sullo Stretto. Ecco perché può essere l’inizio di un’escalation

Il via libera del dipartimento di Stato statunitense a una nuova commessa di armi diretta a Taiwan era atteso e scontato, in quanto allineato su una traiettoria chiara: Washington vuole dare sostegno all’isola, sia come dimostrazione d’impegno su un dossier che riguarda la libertà e la sovranità (che Pechino nega a Taiwan, in quanto la considera una provincia ribelle da riannettere, anche con la forza), sia come leva strategica contro la Cina. Taiwan è in effetti parte del sistema di contenimento cinese nel Pacifico: l’avamposto più sensibile (per i delicati equilibri con la mainland, chiaramente) e geograficamente più prossimo (ergo più fastidioso sul piano geopolitico).

La fornitura attuale riguarda undici lanciatori mobili d’artiglieria Himars (tecnologia per salve multiple impiegabile, per esempio, contro un assalto anfibio) e circa cento missili da crociera AGM84H che sono lanciabili da aerei come gli F-16 (armi con cui Taiwan potrebbe colpire in profondità la Cina nel caso di un conflitto). Si tratta di un rafforzamento importante che segue la volontà americana di trasformare l’isola in un “porcospino”, ossia in un territorio corazzato che renda complicato qualsiasi attacco. Una visione che non è del tutto condivisa dai taiwanesi, che vorrebbero un’assistenza diversa mentre Washington vuole l’autonomia della difesa locale (anche con pressioni).

La Cina non resta ferma, come ovvio. Nei giorni scorsi i missili DF-17 sono apparsi sulle basi costiere che guardano lo Stretto. Si tratta dei vettori ipersonici entranti in servizio lo scorso anno e pubblicizzati (anche a ragione) come un avanzamento tecnologico dell’arsenale cinese. È di certo un rafforzamento (nel caso i missili servirebbero all’affondo iniziale contro i centri di comando taiwanesi). Processo che settimane fa aveva riguardato gli annunci sulla costruzione di un reparto Marines più folto (dopo che il settore era stato descritto come carente dal Pentagono e inadeguato a un eventuale assalto a Taiwan). Metodi con cui Pechino cerca di mantenere alta la pressione psicologica e risponde ai piani sull’isola.

L’ipotesi militare è radicale, ma non del tutto escludibile (se si considera che tempo fa è stato lo stesso segretario del Partito comunista cinese, il capo dello Stato Xi Jinping, a evocare un possibile uso della forza). Certo è che allo stato attuale la possibilità di intavolare negoziati che riconoscano una parziale indipendenza a Taipei – dove la presidente ha vinto per due volte le elezioni, anche perché sostiene una linea autonomista – è lontana. A rendere ancora più alto il livello di scetticismo dei taiwanesi c’è quanto sta succedendo a Hong Kong, dove lo schema “un Paese, due sistemi” è stato di fatto annullato dalla spinta di Pechino per la cinesizzazione del “Porto Profumato”.


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