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Usa2020, e se votasse anche il resto del mondo? L’analisi dell’amb. Stefanini

Proviamo ad immaginare un collegio elettorale mondiale dove i voti siano ponderati in base alla popolazione. Secondo questa stima, Trump ne avrebbe già in cassa tra il 25 e il 30%, mentre Biden arriva al massimo all’11-12%. Cina o Africa potrebbero far pendere la bilancia a suo favore, ma il candidato democratico troverebbe una strada molto in salita per conquistare la maggioranza nel mondo. Per sua (e nostra) fortuna deve pensare solo ai fatidici 270 voti del collegio elettorale Usa. L’analisi dell’ambasciatore Stefano Stefanini

Domani l’America vota, o meglio finisce di votare. Quasi 100 milioni lo hanno fatto in anticipo. Quest’elezione è sulla via di segnare la più alta affluenza americana alle urne dal 1908. Ne uscirà vincente Trump o Biden? O un risultato contestato che protrarrà l’incertezza? Se lo domandano non solo a Atlanta e a Seattle, ma anche a Roma, Pechino, Abuja e Teheran. Non per curiosità ma per interesse: con due candidati diametralmente opposti, con la più grande potenza mondiale attraversata da una polarizzazione senza precedenti, le ripercussioni toccheranno tutti. Il verdetto è nelle mani del 4,5% della popolazione mondiale. Ma quale sarebbe se alle urne potesse andare anche il restante 95%?

È radicata convinzione, specie in Italia e in Europa, che Donald Trump sia un fenomeno americano. Solo negli Stati Uniti e grazie alle alchimie del collegio elettorale americano avrebbe potuto diventare presidente. Questa lettura è contraddetta nei dati da due tendenze che mostrano invece che anche il portavoce di “America first” è figlio della globalizzazione: la crescente diffusione di demagoghi che simpatizzano con Trump e fanno il tifo per lui; l’attrazione che il leader forte, al di sopra del bene e del male, esercita anche sul pubblico anche dove c’è solida consuetudine democratica. Se domani votasse il resto del mondo Donald Trump avrebbe altrettante, se non più chances, di vincere un secondo mandato.

Non esistono sondaggi di voto mondiale che comunque sarebbero poco affidabili: sono da prendere con le pinze quelli nazionali, figuriamoci globali. Ma si può usare come indice indiretto l’atteggiamento dei governi. Dove la democrazia è latitante – cioè in buona parte del mondo – è molto discutibile che sia rappresentativo di quello dei rispettivi popoli. Interpreta però l’interesse nazionale alla scelta del prossimo inquilino della Casa Bianca. Del resto, non funziona per democrazia indiretta la meccanica americana dei “grandi elettori” con voti ponderati per ciascun Stato Usa? Nel 2016 Donald Trump è diventato presidente per aver ottenuto la maggioranza nel collegio elettorale, avendo perso il voto popolare per circa tre milioni di voti.

La maggior parte dei governi è estremamente riluttante a schierarsi e si astiene accuratamente dal tradire le proprie preferenze, pur spesso marcate. Non è un mistero per nessuno che Berlino, Madrid e molte capitali Ue facciano il tifo per Biden. Ma si guardano rigorosamente darlo a vedere. C’è chi nel 2016 aveva puntato su Hillary Clinton ed è rimasto scottato. La tentazione di saltare prematuramente sul carro del presunto vincitore resta irresistibile. Anche quest’anno ci sono eccezioni: leader che si sono esplicitamente detti a favore di Donald Trump come Viktor Orban (Ungheria), Jair Bolsonaro (Brasile), Rodrigo Duterte (Filippine), Aleksandar Vucic (Serbia), Janez Jansa (Slovenia).

In molti altri casi le simpatie per l’uno o l’altro candidato sono appena malcelate; in altri è evidente l’incertezza. Proviamo ad immaginare gli schieramenti. Joe Biden può contare sulla maggioranza degli europei (non su tutti) e degli occidentali; Tokyo e Canberra, ad esempio, sono tendenzialmente ben disposte ma si domandano se la sua politica verso la Cina sarebbe sufficientemente assertiva. Aggiungiamo il Messico che ha subito le invettive di Trump ma ha poi trovato un modus vivendi più del Canada; il muro è in costruzione ma la Trump Organization non gli ha mandato il conto. Mettiamoci l’Iran, per disperazione.

Il campo dei sicuri pro-Biden si ferma lì. Donald Trump ha dalla sua, oltre ai sostenitori dichiarati, un gruppo sostanzioso: India, Russia, Egitto, Paesi del Golfo, Israele; in Europa, probabilmente, Polonia e Regno Unito – parliamo sempre, beninteso, di governi non della gente (in un recente sondaggio circa due terzi dei britannici sono risultati pro-Biden). Il grosso dei governi, a cominciare dalla Cina, non scopre le carte; Pechino è in dubbio fra il disastro Trump e l’incognita Biden. Nel dubbio si astiene. Così si può immaginare, con differenti motivazioni, per Turchia o Ucraina o Nigeria.

Proviamo ad immaginare un collegio elettorale mondiale dove i voti siano ponderati in base alla popolazione. Secondo questa stima, Trump ne avrebbe già in cassa tra il 25 e il 30%, mentre Biden arriva al massimo all’11-12%. Cina o Africa potrebbero far pendere la bilancia a suo favore, ma il candidato democratico, beniamino del benpensare internazionale, troverebbe una strada molto in salita per conquistare la maggioranza nel mondo. Per sua (e nostra) fortuna deve pensare solo ai fatidici 270 voti del collegio elettorale Usa.

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