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Microchip, una difficile (e costosa) corsa per l’autonomia strategica

La competizione tra Stati Uniti, Europa e Cina per i semiconduttori mette sotto pressione un’industria fortemente interconnessa e cruciale per la quarta rivoluzione industriale. In un contesto post-pandemico, la priorità è investire per colmare i ritardi lungo la catena del valore. Ma con quali implicazioni? Ecco le ultime novità

La competizione sui semiconduttori è destinata a influenzare il panorama tecnologico, oltre che commerciale, del prossimo futuro. La rilevanza di questi dispositivi nell’economia moderna è a dir poco sorprendente: ogni elemento che andrà a comporre il cosiddetto “Internet of Things” – dai devices commerciali (smartphone, tablet etc.), ai sensori, passando dall’industria automotive fino alle tecnologie “verdi” – non potrà essere concepito e sviluppato senza il supporto di specifici microchip, vitali anche per lo sviluppo di frontiere tecnologiche come l’intelligenza artificiale e il quantum computing.

Data la centralità per l’economia digitale e per la corsa alla supremazia tecnologica, non stupisce la crescente attenzione che questo settore stia ricevendo da parte dei policymakers europei, americani e cinesi. Ma soprattutto, che sia diventato l’oggetto di una crescente competizione tecnologica – resa ancora più evidente dalle continue frizioni tra Stati Uniti e Cina – che connota l’industria dei semiconduttori come un importante asset strategico per il futuro.

L’EUROPA CERCA LA SOVRANITA’ TECNOLOGICA…

“Una nuova realtà geopolitica, industriale e tecnologica sta ridefinendo il campo da gioco. In quello che è stato a lungo un business globale”. Partecipando ad una video-conferenza, nella giornata di martedì 8 dicembre i Ministri di 17 stati membri dell’Unione Europea hanno firmato una joint declaration per unire gli sforzi e sviluppare un’industria dei processori e dei semiconduttori europea. Si tratta di un impegno che vorrebbe incoraggiare investimenti nello sviluppo di una catena del valore tecnologica, approfittando laddove possibile dei fondi che saranno messi a disposizione del Recovery and Resilience Facility Plan. Secondo quanto si legge nella nota, questi fondi potrebbero arrivare a 145 miliardi per i prossimi tre anni. Tra i paesi firmatari Germania, Francia, Olanda e Italia, con il Ministro per lo sviluppo economico Stefano Patuanelli.

“I produttori europei di microchip godono di una forte presenza verticale nei mercati per i sistemi interconnessi quali automotive e industria manifatturiera” si legge nella nota, inoltre “l’Europa ha una posizione tecnologica forte nelle telecomunicazioni incluse le tecnologie 5G e l’emergente 6G. Tuttavia, la quota europea per il mercato globale di semiconduttori da 440 miliardi di euro è di circa il 10%, ben al di sotto della stazza economica del continente”. Considerando la dipendenza dell’Europa dai produttori esteri, “per assicurare la sovranità e competitività tecnologica, così come per affrontare le sfide sociali e ambientali e i mercati emergenti, l’Europa deve sviluppare la sua capacità di produrre la prossima generazione di microprocessori e semiconduttori”, cruciali per applicazioni come “connettività veloce, veicoli autonomi, aerospazio e difesa, intelligenza artificiale, data centres, super e quantum computing”. Per farlo, i firmatari auspicano la collaborazione di tutti gli stakeholders europei per la creazione di un’alleanza industriale, di roadmap strategiche per piani d’investimento mirati, sfruttando le risorse del Next Generation EU, il tutto sotto la egida e il coordinamento di un European Flagship Project oltre alla comune adesione su standard e progetti di formazione. Con l’obiettivo al 2025.

Di fronte ad uno scenario di competizione, e reso ancor più incerto dalla pandemia, la mossa europea si allinea ad una tendenza ormai globale. “L’Europa ha tutte le carte in regole per diversificare e ridurre dipendenze critiche rimanendo un’economia aperta” ha commentato il Commissario Thierry Breton. “Dovremo pertanto impostare piani ambiziosi, dal design dei chip ai più avanzati sistemi di produzione verso i chip a 2 nanometri, con l’obiettivo di differenziare e sostenere le nostre filiere più importanti”. E’ un’altra importante dichiarazione d’intenti verso quell’autonomia strategica, o “sovranità digitale”, che la Commissione europea ha da tempo annunciato e accelerato in un contesto di vulnerabilità delle catene del valore. Ma anche Washington ha da alcuni mesi abbracciato l’idea di rinforzare la sua base industriale dei microchip, godendo già di un’importante leadership lungo tutta la catena del valore.

NEL FRATTEMPO, IL CONGRESSO AMERICANO…

Nella giornata di venerdì, il Senato ha approvato un importante step verso il reshoring di alcune importanti fasi nella produzione di semiconduttori e nell’investimento in R&D con il passaggio, seguito dopo il via libera della Camera, del CHIPS Act all’interno del National Defense Authorization Act (NDAA). La legge (Creating Helpful Incentives to Procuce Semiconductors) era stata presentata al Congresso dalla Semiconductor Industry Association (SIA) lo scorso giugno, ed è volta a creare le condizioni per promuovere incentivi federali per un’industria che è il simbolo dell’egemonia tecnologica americana. “L’approvazione congressuale della NDAA”, ha dichiarato in una nota a margine John Neuffer, presidente della SIA, “è una vittoria storica per l’economia, la sicurezza nazionale e delle supply chain americane, e per la leadership globale nelle tecnologie di oggi e del domani”.

Che gli Usa potessero permettersi di guardare già al futuro lo ha testimoniato il piano presentato dalla stessa SIA lo scorso ottobre, con la presentazione di un “piano decennale” per lo sviluppo della prossima generazione di semiconduttori e per consolidare quel gap tecnologico che già caratterizza le aziende americane nella catena globale del valore. La palla passa ora al Presidente Donald Trump, a cui spetterà il compito di firmare la legge. Un’urgenza dettata più dalla volontà di chiudere uno sforzo bipartisan su cui anche la prossima amministrazione potrà contare, piuttosto che dai rischi di un eventuale passo indietro di Joe Biden, dal momento che il candidato democratico difficilmente sconfesserà la linea dura su Pechino specialmente rispetto alle tecnologie critiche e in generale sui dossier più caldi. In particolare, il regime di sanzioni e di export ban approvati dal Dipartimento del Commercio nei confronti di Huawei e ZTE, che ha preso di mira l’industria dei semiconduttori cinesi, rappresenta un colpo fatale per i piani – speculari a quelli dell’Unione Europea rispetto agli obiettivi – di Pechino di costruire una propria sovranità tecnologica sui chip. Gli USA hanno vietato l’esportazione di equipaggiamenti industriali vitali per la produzione dei semiconduttori e la vendita di tecnologie con software ideati dai giganti americani come Intel e Qualcomm nel mercato cinese. Una strozzatura che indurrà la Cina a finanziare i suoi player come AMEC e ACMR – principali fornitori cinesi delle strumentazioni per produrre i chip – e a investire nel suo software e design. Il tutto in una spirale di escalation commerciale che certamente non gioverà alla stabilità dei mercati.

UN’AUTARCHIA DEI CHIP IMPROBABILE…

In generale, si tratta di un settore che si è consolidato negli ultimi tre decenni, grazie ad una parallela espansione del settore elettronico a livello commerciale e agli sviluppi tecnologici che hanno consentito un aumento della performance dei chip. Il tutto di pari passo con la globalizzazione del settore, con una divisione produttiva degli stadi – design, fabbricazione e assemblaggio – lungo la supply chain, garantendo economie di scala e quegli investimenti necessari per sviluppare dispositivi cutting-edge in un settore dai costi di capitale, umano e materiale, molto ingenti. Questa fortissima interdipendenza e le barriere all’ingresso in un mercato che vede una crescente concentrazione degli stadi chiave in pochissimi attori fa dell’industria dei microchip difficilmente appannaggio di un singolo paese o regione. Perché? Parlando di intelligenza artificiale, che dipenderà dagli sviluppi dei chip, Andrea Gilli ce lo ricorda con grande lucidità: “La filiera produttiva […] è già globalizzata. I processori sono disegnati negli Stati Uniti, nel Regno Unito o in Israele, ma le macchine che stampano i semiconduttori altrove, come in Olanda, i software in altre regioni del mondo. Con una supply chain di questo tipo, la vulnerabilità è talmente alta che c’è un interesse comune a cooperare”. Lo shock pandemico e la guerra tecnologica tra Usa e Cina sembra aver indotto Bruxelles, almeno in questo ambito strategico, a riflessioni differenti e ad una costosissima corsa ai microchip per non restare intrappolata nella morsa tra i due colossi.



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