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I dettagli dell’accordo tra Europa e Cina e i passi falsi sul lavoro forzato

Dopo quasi un mese dalla firma dell’accordo sugli investimenti con la Cina, la Commissione europea pubblicati i documenti dell’intesa (ma non tutti). Confermate le formulazioni vaghe sull’impegno di Pechino a rendere illegale il lavoro forzato. E il meccanismo di risoluzione delle dispute favorisce il Dragone

A quasi un mese dalla firma dell’Accordo sugli investimenti tra Unione europea e Cina, oggi la Commissione europea ha pubblicato alcuni documenti di quell’intesa (gli altri verranno pubblicati a febbraio). Un accordo firmato negli ultimi giorni del 2020 dopo 7 anni di trattative e ben 35 round negoziali grazie a una forte spinta tedesca: non hanno pesato soltanto la cancelliera Angela Merkel, ma anche Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea che di Merkel è stata ministro della Difesa, Sabine Weyand, a capo del dipartimento Commercio della Commissione, e Joerg Wuttke, direttore della Camera di commercio europea a Pechino.

LE PREOCCUPAZIONI SUL LAVORO FORZATO

Trovano conferma le indiscrezioni sulle espressioni utilizzate in merito al lavoro forzato che avevano alimentato le tensioni tra esecutivo e Parlamento europeo. Ecco cosa si legge: “Ogni parte deve fare sforzi continuati e sostenuti di propria iniziativa per perseguire la ratifica delle convenzioni fondamentali dell’Organizzazione internazionale del lavoro numero 29 e 105, se non sono state già ratificate”.

Inoltre, l’accordo prevede che nel caso in cui uno Stato membro dell’Unione europea decidesse di citare in giudizio la Cina tramite arbitrato, udienze di risoluzione delle controversie si svolgeranno a Pechino. Se, invece la denuncia di violazione proviene dalla Cina, si svolgeranno a Bruxelles. In pratica, non c’è alcun tipo di strumento che l’Unione europea può utilizzare per fare pressione sulla Cina contro l’utilizzo di lavoro forzato (nello Xinjiang sul popolo uiguro ma non soltanto). È evidente che l’Unione europea non possa imporre le sue leggi a uno Stato sovrano com’è la Cina; ma è altrettanto evidente che quella di ampliare gli scambi commerciali (come da obiettivi dell’accordo) con un Paese in cui il lavoro forzato non è illegale sia una decisione dell’Unione europea.

LE ALTRE CRITICITÀ

Nell’accordo non trovano spazio le Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro 87 e 98 sulla libertà di associazione e sulla contrattazione collettiva. E, come materia di lavoro forzato, anche quando si parla di applicazione delle leggi sull’ambiente si fa affidamento sulla “buona fede”. Inoltre, lo sviluppo sostenibile è escluso dal Dispute Settlement. Tradotto: nessuna sanzione nel caso in cui una delle due parti venga ritenuta inadempiente.

LA DIMENSIONE GEOPOLITICA

Francesca Ghiretti, ricercatrice nell’ambito degli studi sull’Asia presso l’Istituto affari internazionali, aveva spiegato su Formiche.net i problemi di quell’accordo: da una parte ci sono i contenuti (ci sono concessioni da parte cinese ma “rimane da chiedersi se questa versione” dell’accordo “porterebbe vantaggi effettivi in più rispetto alla già pianificata apertura e se questi vantaggi sarebbero poi limitati da questo nuovo meccanismo”); dall’altra il messaggio inviato da Bruxelles (“gli interessi economici dell’Unione vengono prima di tutto”). Un messaggio opposto a quello che, come spiegato sempre a Formiche.net da Marta Dassù, arriva dagli Stati Uniti di Joe Biden: “Washington chiederà comunque all’Europa, e alla Germania in particolare, di assumere maggiori responsabilità, superando un approccio mercantile alle relazioni internazionali”.

LE DIFFICOLTÀ PER GLI INVESTIMENTI

Ma non è tutto. Perché lunedì è entrata in vigore la nuova normativa per il controllo degli investimenti stranieri in Cina che dà al governo cinese il potere di bloccare ogni investimento ipoteticamente rischioso per la sicurezza nazionale. I nuovi meccanismi di screening – che si aggiungono alla Foreign Investment Law dello scorso anno – riguardano gli investimenti stranieri in diversi settori (dalla difesa all’agricoltura) sia diretti che indiretti, come sottolinea il South China Morning Post. Una strategia che il presidente della Camera di commercio europea in Cina ha definito “incompatibile con il progetto cinese di apertura e trasparenza negli affari”, uno dei principi contenuti nel recente accordo sugli investimenti sottoscritto dal governo di Pechino con l’Unione europea.

GLI ACCORDI PARALLELI

Nei giorni scorsi erano emersi alcuni dubbi sui contorni dello sprint di Berlino e Parigi per raggiungere l’accordo con Pechino prima dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca. Su Formiche.net avevamo riportato le rivelazioni del settimanale tedesco WirtschaftsWoche secondo cui il governo cinese avrebbe proposto a quello tedesco un accordo su Deutsche Telekom, la prima telco del Paese e d’Europa.

In cambio, la cancelliera Angela Merkel sembra essere pronta ad aprire il mercato tedesco della telefonia mobile a China Mobile, il primo operatore al mondo per numero di utenti. I sospetti si sono allargati fino a toccare la possibilità di una porta aperta a Huawei in Germania ma anche a uno scambio simile tra Pechino e Parigi attorno ad Airbus. Oggi, presentando l’accordo, alla Commissione è stato chiesto se fosse a conoscenza di accordi paralleli tra Francia, Germania e Cina. Risposta: “No”. Ma che l’esecutivo non ne sia a conoscenza non esclude tutte le possibilità.

IL RUOLO DELL’ITALIA

Grande enfasi era stata data dalla Commissione europea e dal Consiglio europeo alla presenza della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron alla videoconferenza con il presidente cinese Xi Jinping che ha suggellato l’intesa. All’indomani dell’incontro, però, Repubblica aveva racconto di un presidente del Consiglio Giuseppe Conte “estremamente irato per lo smacco” di Merkel e Macron.

Insoddisfazione trapelava anche dall’intervista al Corriere della Sera di Ivan Scalfarotto, allora sottosegretario agli Esteri, che aveva parlato di “un’intesa con luci e ombre” e di “una sconfitta” per l’Italia. Ma non solo: “ci dice che quello sciagurato accordo sulla Via della Seta che il precedente governo ha concluso nel 2019 è stato un fallimento completo”, spiegava il deputato di Italia Viva.

Il professor Carlo Pelanda spiegava a Formiche.net le ragioni della passività italiana in questo negoziato guidato dalla Germania e subìto dalla Francia: hanno pesato il rapporto tra la nostra industria e quella tedesca sotto “ricatto” di Xi e la penetrazione francese e cinese nel nostro sistema politico, diceva. Ma, notavamo su Formiche.net, con l’arrivo di Biden essere rimasti in secondo piano in questo negoziato potrebbe rivelarsi una mossa saggia.

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