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Se il palazzo di Putin è pieno di muffa. Foto, video e analisi politica

Non è il palazzo imperiale lo scoop di Navalny, ma aver mostrato la muffa che fa cadere pioggia dal tetto sopra a Putin, accerchiato da un network di giornalisti, che raccontano (rischiando la vita) le debolezze del Cremlino

Sul tetto della fantasmagorica residenza del presidente russo, Vladimir Putin, che Alexei Navalny ha mostrato al pubblico nella sua ultima indagine sul mondo corrotto del Cremlino c’era la muffa. Entrava acqua, e per questo sono stati chiamati degli operai a sistemarlo; operai che molto probabilmente hanno poi creato la falla nel sistema di sicurezza attorno al leader e fornito informazioni (immagini) scabrose sul palazzo dello Zar. Il palazzo “più costoso del mondo” è stato mostrato online dalla FBK, l’associazione per l’anticorruzione che Navalny guida.

Navalny è questo: è il leader simbolico della gigantesca lotta alla corruzione in Russia; corruzione che nel Paese è endemica e che regge il sistema di potere putiniano, dal presidente alle varie cerchie che lo circondano. Navalny è indirettamente leader dell’opposizione, come politico ha poco appeal, ma quando fa uscire certe informazioni può essere devastante. Anche perché se ne è in possesso è perché ci sono falle tra chi bazzica quelle cerchie; falle che dimostrano debolezze; debolezze che un potere non può permettersi di avere, figuriamoci di mostrare.

Soprattutto se quelle debolezze diventano rappresentazione di come quel potere si sia ingrassato sulle spalle dei cittadini, spingendo narrazioni alterate, evitando qualsiasi genere di contraddittorio. Se l’arresto di Navalny a pochi mesi dall’avvelenamento con cui quel potere voleva farlo fuori è un simbolo che potrebbe scuotere definitivamente l’Occidente – incline nel rispettare la narrazione di potenza che Putin intende proiettare – le immagini del palazzo sul Mar Nero possono essere disastrose per la tenuta russa, arrivata al limite interno anche perché manca una successione.

FBK racconta le stanze dorate del ritiro putiniano come “il più grande atto di corruzione del mondo”: l’edificio è stato costruito con fondi illeciti. Il video al momento della stesura di questo pezzo conta 59 milioni di visualizzazioni ed è online a causa della muffa sul tetto, di un ricambio assente che ha reso l’aria stagnante, che ha prodotto umidità che a sua volta ha causato la perdita. Nella roccaforte di Putin ci piove dentro. Simbolico: è questa l’immagine, più dei lustri e delle stanze con le auto-giocattolo, che racconta meglio di qualsiasi altra la realtà alle spalle del wannabe Zar a due decenni dall’inizio del potere.

Il documentario, dove Navalny fa da narratore, ci racconta che tutto era pianificato. L’inchiesta era stata ultimata tempo prima dell’arresto, che a sua volta era calcolato – solo chi non segue le dinamiche russe può pensare che sia stato un atto sorprendente o scellerato. L’attivista è tornato in patria per scatenare tutto questo, voleva un martirio pubblico, ego e voglia di giustizia, politica e interessi personali, lo spingono: scendete in piazza nel centro delle vostre città, dice una scritta all’inizio del video, chiedendo ai cittadini russi di manifestare sabato 23 gennaio non tanto per sostenere Navalny ma sulla scorta dell’indignazione che le immagini del palazzo balneare susciterà.

È la contro-narrazione in stile populista (come lo definisce il New York Times). Da una parte un presidente che si descrive come un padre della patria che sta ricreando una nuova forma di grandezza imperiale che porterà prosperità al paese; dall’altra il palazzo che racconta che di quella prosperità ne gode lui, ma ha un tetto bucato sulla testa. E quella crepa in cui filtra acqua chissà che non si allarghi via via a tirar giù tutto il palazzo. È questo il senso del massaggio di Navalny. Putin è ammuffito, come lo è stata l’operazione con cui l’Fsb voleva eliminare Navalny o quella contro Skripal, oppure quando per dare peso globale all’intervento siriano – costoso e poco proficuo – fu fatta scendere da Murmask la portaerei “Ammiraglio Kuznetsov”.

Accompagnata da una scia di un fumo nero anacronistico (sai, l’ambiente, ndr), la nave – scortata nel suo viaggio decadente dai moderni mezzi Nato – s’è persa due aerei dal ponte poi, dopo lo show penoso nel Mediterraneo, è stata rispedita in un cantiere per risistemare, appunto, l’intero piano d’atterraggio. Una situazione nota sin da prima dello schieramento, su cui – come su molte altre cose – il governo russo aveva mentito per spingere la propaganda. Nota era anche la dimora di Gelendzhik, la località esatta a nord della più famosa Soči in cui si trova il palazzo. Quello di Navalny non è uno scoop, lo scoop uscì nel 2011 semmai, quando Lev Ivanov di Svabodnaja Pressa pubblicò un’inchiesta, basata sulle rivelazioni dell’imprenditore Sergej Kolešnikov.

Un tempo parte delle cerchie putiniane, Kolešnikov scrisse all’allora presidente Dmitri Medvedev sostenendo che quella tenuta dal costo di un miliardo di dollari – che si estende su 17 mila metri quadrati, immersa in un parco da 68 ettari in cui c’è anche eliporto, un campo da hockey sotterraneo, una chiesa, delle vigne pregiate, un allevamento di ostriche, un ponte di ottanta metri che porta a una casa da tè grande 2.500 metri quadrati – ecco, dicevamo Kolešnikov denunciava che tutto quello era costruito con fondi illeciti.

Lui fu costretto a fuggire, l’area messa sotto stretta sorveglianza dall’Fsb (inavvicinabile da terra, mare, cielo), la narrazione del Cremlino diceva che era proprietà di una cooperativa, Wikileaks pubblicò altre informazioni. Figurarsi se in dieci anni Navalny non sapesse già tutto, ma il documentario adesso ha un altro effetto che tempi addietro, perché adesso Putin è indebolito – soprattutto dall’assenza di una successione dicevamo, e dalla lotta intestina per la successione. E poi adesso l’effetto c’è stato anche perché Navalny non è solo, ma il video del palazzo imperiale di Putin arriva in mezzo ad altre inchieste e al lavoro di diversi media.

La libertà d’espressione e la qualità delle inchieste giornalistiche che escono sul mondo di Putin sono in effetti il più grande nemico del potere presidenziale. E sono anche la spiegazione più semplice sul perché adesso arrivano certe informazioni al pubblico a nastro: la struttura ammuffita ha falle, chi cerca di riparare lavora male, chi vuole mostrarle invece eccezionalmente bene. Come con lo zarismo e il comunismo, anche con il putinismo c’è una Russia insoddisfatta. Ed è sempre più vasta. Insieme c’è un network denso, giovane e tecnologico di giornalisti che mette a nudo il re, l’affarismo e la corruzione che lo reggono, le sue debolezze.

Lavorano in modo moderno, cancellano le tracce, si muovono agili, non hanno redazioni, ottengono informazioni e sanno ricostruirle. Non hanno uffici, si finanziano con donazioni esterne (non ricattabili dal potere di Mosca). Per esempio c’è Proekt Web, che recentemente ha svelato la storia di Svetlana Krivonogikh, ex cameriera e madre della figlia extraconiugale di Putin, Yelizaveta: la signora Svetlana ora è proprietaria di un impianto sciistico a San Pietroburgo comprato con i dividendi ottenuti da Banca Rossiya, istituto amico del Cremlino. Oppure c’è The Insider, noto per condurre inchieste scabrose sui fiaschi dell’intelligence russa – compresi quelli sulla mancata uccisione di Navalny – insieme all’inglese Bellingcat (che di Russia è specializzato).

Recentemente il sito ha raccontato che Alina Kabaeva, ginnasta olimpica e amica particolare del presidente, ha ricevuto per anni uno stipendio da 10 milioni di dollari come presidente del gigante editoriale National Media Group, molto vicino al Cremlino e molto lontano dalle competenze di Kabaeva. Oppure ancora iStories, in cui è uscita la storia di Kirill Shamalov e del suo acquisto di 380 milioni di euro di quote di Sibur, gigante petrolchimico russo, pagate solo 100 milioni: Shamalov è l’ex genero di Putin. Queste tre inchieste citate sono arrivate come mazzata di fine anno contro Putin. E mentre il presidente raccontava nella più-spenta-del-solito conferenza di fine anno la grandezza russa e minimizzava i casi giornalistici, i cittadini leggevano.

Il 2021 è iniziato come era finito l’anno precedente. Il “paziente di Berlino”, come Putin chiama Navalny per non nominarlo e svilirlo, ha fatto uscire le immagini del palazzo che hanno coperto le pagine di mezzo mondo, dal gossip alla geopolitica. E lo ha fatto mentre veniva arrestato. Il potere è arroccato, incrostato di muffa, rabbioso. Quei giornalisti rischiano. Ci sono stati anche negli ultimi anni casi complicati, per esempio quello che ha coinvolto Maksim Borodin, piombato a terra dal quinto piano del palazzo dove abitava senza una ragione e con molti sospetti che la vicenda si leghi ai diversi reportage sul crimine e la corruzione governativa russa e sull’impegno siriano.

Tra le inchieste di Borodin quella che scoprì come alcuni contractor a febbraio 2018 erano tornati a casa dentro a bare discrete, nella città di origine di Asbet, dopo essere stati ingaggiati in via non ufficiale dal governo per la campagna siriana da una società ai tempi non troppo nota e ora famosissima, la Wagner – riconducibile a Yevgeny Prigozhin, ex cuoco di Putin, e guidata da Dmtry Utikin, ex comandante degli Spetznaz ora passato all’attività paramilitare privata. Il Cremlino racconta la Siria come un’impresa epica moderna e non ammette vittime.


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