Skip to main content

Chip, 5G e non solo. L’agenda di Giorgetti si chiama Biden

Come ha fatto il presidente americano Joe Biden, anche il governo Draghi può avviare una revisione della catena di produzione italiana nei settori sensibili dipendenti dall’estero (specie dalla Cina). Il Mise di Giorgetti è al centro del piano. Biomedicale, vaccini, 5G, automotive, ecco la mappatura che manca al Paese

Giancarlo Giorgetti è un politico conosciuto per il suo pragmatismo. È diventato ministro dello Sviluppo economico, a capo di uno dei dicasteri più sensibili, tanto più in mezzo a una pandemia. E sa che non ci resterà all’infinito. A incrociare le dita, buona parte dei leghisti a lui vicini dà un anno di vita al governo Draghi. Un anno in cui, a capo del Mise, il numero due del Carroccio può lasciare il segno e portare a casa alcuni punti-chiave dell’agenda politica leghista.

Anche in politica estera, di cui si occupa, tra l’altro, come responsabile del partito. Sono tanti i dossier in mano al Mise con un peso specifico sulla politica estera italiana. C’è il mondo tech, e in particolare la rete 5G. In attesa di capire se la delega alle telecomunicazioni sarà affidata a un viceministro o a un sottosegretario, e al netto del ruolo che giocherà il ministero per la Transizione digitale di Vittorio Colao, le scelte del ministro leghista saranno comunque decisive per una delle più difficili partite geopolitiche, con gli Stati Uniti che chiedono di escludere dalla rete aziende cinesi come Huawei o Zte con l’accusa di spionaggio.

Il fronte tecnologico, però, non è l’unico. Questo mercoledì il presidente americano Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo che avvia una revisione di cento giorni di tutte le filiere produttive del Paese, specie quelle sensibili sotto il profilo della sicurezza, come il biomedicale, la Difesa, la tecnologia.

L’obiettivo è fare una mappatura delle debolezze sistemiche e ridurre la dipendenza da Paesi fornitori esteri. Nel mirino, va da sé, c’è anzitutto la Cina, che da sola conta su quasi l’80% delle “terre rare”, cioè quel gruppo di metalli che servono a costruire i microchip per telefonini e rete mobile, i jet militari, i computer, ma anche a reggere il mercato dell’industria pesante.

L’Italia ha mai fatto questa mappatura? È una domanda che si sono posti gli addetti ai lavori fin dalle prime settimane dell’emergenza Covid un anno fa, quando anche a Roma è arrivato il contraccolpo della pandemia e ci si è resi conto da un giorno all’altro che, ad esempio, per avere le mascherine necessarie bisognava siglare contratti milionari con aziende di Stato cinesi, mentre si chiedeva in fretta e furia alla Fiat o alla Maserati di riconvertire parte della loro produzione.

Con la direzione del Mise, che è il dicastero-chiave per i rapporti con il mondo industriale e imprenditoriale, Giorgetti ha l’occasione di tracciare per la prima volta una mappa delle filiere italiane a rischio, sulla scia dell’amministrazione Biden, con un occhio di riguardo ai settori industriali che pendono dalle forniture di un “rivale sistemico” dell’Ue come la Cina. Non si tratta di vaneggiare di “decoupling” ma di rispondere a una richiesta che anche gli 007 italiani, oltre al Copasir presieduto da Raffaele Volpi, hanno fatto in questi mesi.

È un lavoro che va fatto prima che arrivino i soldi del Recovery Fund. Perché se non c’è una cartina, il rischio è di convogliare quei fondi in attività che favoriscono solo le importazioni dall’estero, aggravando la dipendenza in settori strategici. Ad agosto il deputato e allora componente del Copasir Antonio Zennaro faceva un esempio pratico su Formiche.net: “Prendiamo i recenti incentivi nazionali ai monopattini elettrici, stanziati con i decreti per il rilancio economico. In pochi ricordano che almeno il 90% dei componenti di questi strumenti è “Made in China”. In poche parole, si fa debito pubblico per finanziare l’importazione”.

Da dove partire? Giorgetti in realtà ha già inaugurato il lavoro, ricevendo i vertici di Farmindustria e il presidente dell’Aifa Giorgio Palù. Qui in ballo c’è la madre di tutte le partite, cioè la possibilità di portare sul territorio nazionale la produzione di vaccini anti-Covid. L’obiettivo, ha fatto sapere il ministero, è “costruire un polo nazionale pubblico-privato” per il vaccino anti-Covid. Anche in questo caso, una revisione dettagliata della filiera permetterebbe di avere un quadro completo su quanti e quali sono gli impianti e le realtà industriali italiane in grado di partecipare alla produzione del siero, sia pure per una sola fase del processo.

Una revisione tout-court delle supply chain non può passare solo per il Mise, ha bisogno di un lavoro di concerto. Di Palazzo Chigi, dove oggi c’è un sottosegretario esperto in materia, Roberto Garofoli, e adesso anche un sottosegretario con delega alla “Sicurezza del Paese” e all’intelligence, l’ex capo della Polizia Franco Gabrielli. Dalla presidenza del Consiglio un apporto alla “mappatura” può arrivare dal Gruppo di coordinamento golden power, cioè dagli esperti che, sotto la supervisione del premier, vagliano (e bloccano quando c’è un rischio per la sicurezza) gli investimenti esteri, e dal Dipe (Dipartimento per la programmazione economica).

Senza contare i veicoli dello Stato che sono già scesi in campo per sostenere le filiere strategiche a rischio, come Cassa Depositi e Prestiti, o Invitalia, che ha supportato la riconversione e il potenziamento della produzione di più di 1000 aziende nel settore farmaceutico-biomedicale. Ma per fare una revisione delle filiere à la Biden anche in Italia bisogna coinvolgere il settore privato.

Qui sta la centralità del Mise di Giorgetti. Confindustria e le “confindustrie” settoriali, le associazioni di categoria, i sindacati possono mettere ognuno un tassello del puzzle. Il Mise ha già una struttura dedicata, la “Direzione generale per la politica industriale, l’innovazione e le piccole e medie imprese”. Che fra le sue attività elencate sul sito annovera quella di “analisi e studio del sistema produttivo nazionale e internazionale; banca dati per il monitoraggio del sistema imprenditoriale italiano e confronto con il sistema internazionale; valutazione degli impatti delle politiche industriali”.

Una revisione delle filiere con un occhio alla sicurezza nazionale non passerebbe inosservata a Washington DC, e potrebbe fare incassare alla Lega un nuovo credito politico con il mondo atlantico. Può avvalersi del lavoro svolto in questi mesi dagli 007 italiani. E si inserirebbe in un processo già avviato dalla Commissione Ue di Ursula von der Leyen, con l’approvazione lo scorso ottobre del “Piano d’Azione per le materie critiche” e il lancio dell’ “Alleanza europea per le materie prime” con lo stesso obiettivo di Biden: tagliare o almeno accorciare il cordone ombelicale che lega le filiere europee alla produzione cinese e può trasformarsi, in un’emergenza come il Covid-19, in una dipendenza geopolitica”.


×

Iscriviti alla newsletter