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Così la Cina minaccia di bloccare l’export dei metalli strategici

Pechino valuta una stretta sulle terre rare. Le autorità cinesi hanno inoltre chiesto agli operatori del settore quale impatto potrebbe avere la misura sui contractor europei e americani. L’industria della Difesa l’obiettivo più sensibile

La Repubblica popolare cinese sta valutando quale possa essere l’impatto di un eventuale blocco alle esportazioni di terre rare, elementi cruciali per l’industria high-tech. È quanto spiega oggi il Financial Times.

Il ministero dell’Industria e dell’information technology aveva proposto una serie di misure drastiche nel contesto della continua guerra commerciale con gli Stati Uniti già lo scorso mese, promuovendo il controllo capillare del settore lungo gli stadi di estrazione, raffinazione e produzione.

Inoltre, l’entrata in vigore della Export control law a dicembre sembrava confermare nuove ombre sulla possibile politicizzazione di questa supply chain critica nello scenario di competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina. Se le terre rare rientreranno tra i materiali sottoposti a restrizioni “a salvaguardia della sicurezza di Stato” è una decisione che spetterà al Consiglio di Stato e alla Commissione militare centrale.

Secondo quanto riportato dal quotidiano londinese, sembra che alcuni funzionari cinesi abbiano richiesto agli industriali del settore quale potrebbe essere il danno e l’impatto economico a carico dei consumatori europei e americani, specialmente a riguardo dei contractor della Difesa. Infatti, le terre rare sono elementi essenziali per i sistemi di guida e di puntamento avanzati degli F-35 prodotti da Lockheed Martin: secondo un rapporto del Congressional research service, un singolo aereo da combattimento richiede 471 chilogrammi di materiale legato alle terre rare.

Già lo scorso giugno, nel pieno della guerra sui semiconduttori lanciata dall’amministrazione Trump, Pechino aveva minacciato ritorsioni nei confronti di Lockheed Martin, Boeing e Raytheon per aver venduto armi a Taiwan. Un rapporto di un’agenzia di consulenza indipendente americana aveva inoltre dimostrato come l’ipotesi fosse fortemente in discussione nei circoli governativi e all’interno dell’industria.

Gli Stati Uniti attualmente importano dalla Cina quasi l’80% del materiale, con l’Unione europea ancor più esposta avendo poche risorse sul proprio continente. Data la crucialità di questi metalli per l’industria green-tech – dall’elettronica alle turbine eoliche passando per i motori elettrici – un eventuale blocco delle esportazioni da parte di Pechino potrebbe avere severe conseguenze sui prezzi globali, soprattutto in una fase di forte spinta, politica e da parte degli investitori, verso la diversificazione delle forniture.

Incentivi che potrebbero aumentare se Pechino optasse per questa soluzione drastica. Tuttavia, una maggiore offerta negli stadi estrattivi non si tradurrebbe in maggiore sicurezza di approvvigionamento, dal momento che gli stadi di separazione e raffinazione sono attualmente dominati dalla Cina.

In questa direzione anche l’amministrazione Biden ha proseguito gli sforzi già tracciati da quella precedente: il Pentagono, tra gli stakeholder più interessati a ricreare una filiera domestica per mitigare i rischi strategici, ha di recente annunciato di aver assegnato un investimento da 30,4 milioni di dollari all’azienda australiana Lynas Corporation per avviare un sito di raffinazione in Texas. Una piccola tessera di un puzzle più ampio, dal momento che è in crescente monitoraggio l’intera base industriale americana da possibili dipendenze critiche.

Le mosse di Pechino, dunque, potrebbero dare credito politico ai tentativi di riportare in Occidente questa filiera industriale cruciale: “I controlli sull’export sono un’arma a doppio taglio che dovrebbero essere utilizzati con cautela”, ha commentato un’analista cinese al Financial Times.

Vi è inoltre la sensazione che il controllo dell’industria da parte del governo cinese stia entrando in una nuova fase. Secondo Xiaojing Yang, ingegnere minerario e ricercatore alla Penn State University, il maggiore coordinamento e controllo imposto dalle regolamentazioni del ministero di Pechino è volto tanto a limitare le esternalità dell’industria ai danni dell’ambiente quanto a concentrare risorse e capitale per scalare ulteriormente la catena del valore.

Una trasformazione in corso testimoniata dal crescente consumo interno da parte delle industrie cinesi rispetto alla produzione domestica negli ultimi cinque anni: un aumento che ha indotto Pechino ad importare sempre più ossidi di terre rare dagli Stati Uniti e dal vicino Myanmar, scosso dal recente colpo di Stato.

Alcuni ricercatori cinesi, tuttavia, osservano che l’integrazione della filiera industriale sia ancora lontana da quanto sperato dalle autorità governative: la duplice pressione di orientare il consumo interno, senza perdere il controllo delle proprie riserve potrebbe dunque portare Pechino a prendere una decisione che in parte ci riporta a quanto accaduto nel 2010 con la prima crisi scoppiata con il Giappone. “Non siamo sorpresi dalla legge sull’export in arrivo”, commentava a fine gennaio Dan McGroarty, consigliere dell’executive board della compagnia texana USA Rare Earth. Infatti, si tratta di “un altro forte segnale che non possiamo semplicemente basarci sulla continuazione di esportazioni cinesi in questo settore”.



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