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Somalia, i nuovi attentati mettono in discussione il ritiro Usa?

Attentati in Somalia, decine di morti per mano degli Shabab, gruppo terroristico jihadista contro cui gli Stati Uniti non possono fare a meno di combattere, nonostante il ritiro da certi teatri sia una necessità di carattere politico (e chiesta dai cittadini)

Un doppio attacco di al Shabab, gruppo terroristico collegato ad al Qaeda, scuote la Somalia tanto quanto Washington – che sta cercando a fatica di sganciarsi da un coinvolgimento diretto nella lotta al terrorismo nel Corno d’Africa. Questa mattina un’autobomba è stata fatta esplodere davanti all’Afrik Hotel di Mogadiscio: l’esplosione ha fatto da sfondamento permettendo ai terroristi di entrare e aprire il fuoco sui clienti dell’albergo – che è posto lungo l’incrocio K-4, in una delle direttrici centrali della capitale somala. Ci sono nove morti, di cui quattro sono gli attentatori poi respinti dall’intervento delle forze di sicurezza. In un’altra azione separata, almeno otto bambini sono stati uccisi a Merca, città costiera 120 chilometri a sud di Mogadiscio, dove una bomba è esplosa nei pressi di una scuola.

Questi attacchi sono un richiamo. A metà gennaio l’allora presidente Donald Trump ha ottenuto un successo politico ritirando anche dalla Somalia 700 unità: soldati impegnati nell’addestramento delle forze locali e nel controllo a terra (discreto) del territorio, oltre che in saltuarie missioni contro la leadership terroristica di al Shabab (in una di queste recentemente è morto un operativo della Cia). Le truppe non sono rientrate del tutto, ma ridistribuite nell’area: in parte nella grande base aerea in Gibuti e in parte in Kenya (non sono stati esplicitati i numeri del ri-dispiegamento). L’idea statunitense è riempire il vuoto lasciato con osservazioni aeree e raid per disarticolare il gruppo jihadista. Dal 15 gennaio al 30 ci sono stati già tre bombardamenti sul territorio somalo, sei dall’inizio del 2021 – un ritmo per ora più o meno in linea con gli anni precedenti.

Il Pentagono – che ha creato la “Task Force Quartz” per gestire questa nuova fase contro Shabab – sostiene che la pressione sul gruppo terroristico non diminuirà. Una posizione necessaria perché la rimodulazione risponde a un desiderio politico di cui Trump s’è fatta voce (anche scomposta, ma alta), e su cui – sebbene presumibilmente con toni e forme diverse – anche la presidenza Biden non cambierà troppo la linea. Il trend passa anche dall’Iraq, e dal ritiro di truppe impegnate in un’attività simile a quella somala ma contro il Califfato, e dall’Afghanistan contro i Talebani. I problemi ci sono: come sul suolo afghano gli estremisti sono tornati forti, anche in Somalia il gruppo qaedista rappresenta una minaccia di carattere regionale avendo espanso le sue attività al Kenya.

Se la necessità politica del ritiro esiste – figlia delle richieste dei cittadini americani che vedono in certe guerre, le endless war per dirla come Trump, un costo economico e umano – la necessità tecnico-tattica di qualche forma di permanenza è evidente. In Somalia (come in Afghanistan) le forze armate locali sono deboli, incapaci di condurre un’attività di contenimento adeguata. Inoltre, nel caso degli Shabab o dell’Is – e in parte anche con i Talebani – c’è una sostanziale difficoltà nel trovare un accomodamento attraverso trattative che dovrebbero portare questi gruppi fanatici a deporre le armi. Il rischio evidente è che i gruppi finiscano per sopraffare i governi – in difficoltà istituzionali tanto quanto militari. Le attività ibride – incursioni puntuali e missioni dal cielo – rischiano di non essere sufficienti.

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