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Vaccini, perché India e Cina vincono a mani basse (ed è colpa nostra)

sanità vaccini covid pharma

L’India produce il 60% dei vaccini distribuiti nel mondo e l’Europa dipende al 90% da Pechino per l’approvvigionamento di molecole e principi attivi. Dall’off-shoring alle normative blande del Pacifico, tutte le cause (evitabili?) di una dipendenza che non fa bene a nessuno.

Il più grande produttore al mondo di vaccini è indiano. Si stenterebbe a crederlo, visto che da giorni non si parla d’altro che di guerra vaccinale, citando Usa, Europa, Cina e Russia come primi protagonisti del nuovo colonialismo sanitario. Dimenticando, però, che la farmacia del mondo in realtà si trova in India. Basti pensare che già in epoca pre-Covid il 60% dei vaccini distribuiti nel mondo veniva prodotto nel continente indiano.

IL PRIMATO DEL SERUM INSTITUTE

E in particolar modo dal Serum institute of India. Con sede a Pune, l’azienda specializzata in biotecnologie e produzione farmaceutica vanta una gestione familiare – è guidata da Adar Poonawalla, figlio del fondatore Cyrus Poonawalla – ma anche un fatturato non indifferente (800 milioni di dollari prima dello scoppio della pandemia). E sembrerebbe al momento l’unica realtà in grado di sostenere un aumento esponenziale della produzione vaccinale senza incontrare grandi ostacoli.

L’ASTRAZENECA DEL PACIFICO

Tra i vaccini prodotti dal Serum Institute c’è anche quello contro il Covid di AstraZeneca, che secondo quanto dichiarato dall’azienda verrà prodotto in quantità ancora maggiori già ad aprile, quando si passerà dagli attuali 60-70 milioni di dosi ai cento milioni.

UNA TABELLA DI MARCIA AMBIZIOSA

Non solo. Sempre secondo quanto dichiarato dall’azienda nello stesso periodo si avvierà la produzione di Novavax (fra i vaccini più promettenti in fase di approvazione) ed entro la fine dell’estate si aggiungerà quello della startup britannica SpyBiotech, sempre previa approvazione delle autorità sanitarie. Ma la lungimiranza del Serum Institute non si ferma qui, e punta già all’inizio del 2022 alla produzione del vaccino nasale monodose sviluppato da Codagenix, altra azienda biotecnologica americana. Un programma ambizioso, ma che a quanto pare Poonawalla ritiene di poter rispettare.

PRIMA GLI INDIANI

“Vi chiedo umilmente di avere pazienza perché gli sforzi del nostro istituto sono volti a soddisfare i giganteschi bisogni dell’India e, al tempo stesso, a trovare un equilibrio con il resto del mondo”, scriveva meno di un mese fa su Twitter proprio Poonawalla, virando verso quella stessa direzione che sembrano aver intrapreso tutti, o quantomeno coloro i quali possono accedere al vaccino senza troppe difficoltà: prima i nostri.

GLI EFFETTI DELL’OFFSHORING

Ed è il motivo per cui da mesi ci si chiede (ed è anzi un errore non averlo fatto prima) come sia stato possibile delocalizzare con così tanta leggerezza la produzione di prodotti salvavita – in senso non metaforico – come quello dei farmaci e dei vaccini. Perché è vero che un vaccino prodotto in India costa sicuramente meno, ma è altrettanto vero che in caso di emergenza sanitaria, come quella che stiamo vivendo, saremmo forse disposti a pagarlo a qualunque prezzo.

LA DIPENDENZA DA INDIA E CINA

E invece no. Abbiamo aspettato che l’India smettesse di esportare una quantità non indifferente di principi attivi – 26 per la precisione, tra cui il “banale” ma fondamentale e insostituibile paracetamolo – perché l’approvvigionamento abituale dalla Cina – stroncata a suo tempo dal Covid – stentava ad arrivare. L’Europa infatti dipende al 90% da Pechino per il reperimento di molecole e principi attivi, che secondo la Medicine and healthcare products regulatory agency produce complessivamente quasi la metà dei principi attivi del pianeta. Buona parte dei quali, poi, vengono esportati in India per essere lavorati e poi distribuiti.

L’ITALIA (CHE FU) BEST SELLER

“C’è stato un tempo – si legge in un report Ispi – in cui l’Italia era tra i primi Paesi al mondo nella produzione di principi attivi con una quota di mercato del 12% nel 2013”. Con gli anni però il nostro Paese, come quasi tutti i Paesi occidentali, ha progressivamente perso quote rispetto a India e Cina che, grazie a normative meno rigorose e importanti sussidi statali sono riuscite a garantire prezzi del 30-40% inferiori alla media globale.

VERSO UN CUL DE SAC?

Tra l’altro, questa guerra autarchica si sta lentamente – ma nemmeno troppo – trasformando in un cane che si morde la coda, rischiando di ripercuotersi persino su chi ha il coltello dalla parte del manico. Secondo quanto dichiarato da alcuni produttori indiani il Washington’s use of the defense production act starebbe minacciando la fornitura di vaccini (anti-Covid ma non solo) in tutto il mondo. Alcuni dei materiali necessari per la produzione dei vaccini – come i bioreattori o i materiali plastici – sembrerebbero infatti provenire proprio dagli Stati Uniti che però al momento ne limitano o addirittura escludono l’esportazione. Un cane che si morde la coda, appunto.

OMS IN ALLARME: PENURIA DI VACCINI

Lo scorso venerdì, intanto, il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, sperando di incanalare i Paesi verso una più efficace collaborazione, ha lanciato l’allarme. Non solo si rischia di non riuscire a produrre abbastanza vaccini per fermare il Covid – ha spiegato – ma addirittura di non riuscire a produrre normali vaccini di routine che contrastano malattie ormai scomparse nei Paesi sviluppati. “Siamo tutti interdipendenti” ha sottolineato Ghebreyesus, ricordando come sia impossibile pensare di uscire dalla pandemia vaccinando solo i propri cittadini.

UNA GUERRA WIN-WIN?

Reshoring is the way? Forse sì. Ma a patto che i Paesi siano poi in grado di metter a fattor comune competenze e know how per un finale che sia benefico per tutti. Ad oggi, del resto, nessuno è in grado di produrre tutto in house e l’unica via percorribile sembra quella della collaborazione. Ma la battaglia dei vaccini è ancora aperta, e difficilmente una guerra si conclude senza vinti e vincitori.

L’INVERSIONE DELL’ITALIA

L’Italia, intanto, sembra essere sulla strada giusta. Dopo l’inversione a U del nuovo governo e grazie al legame fra il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti e il commissario europeo Thierry Breton qualcosa si è smosso, mostrando una volontà – reale – sia dell’Italia che dell’Europa di ripristinare un’autonomia produttiva in linea con le necessità del Paese e del continente. La settimana scorsa il governo ha stretto il primo accordo con la Patheon Thermo Fisher per produrre un vaccino (non si sa ancora quale) sul territorio nazionale. Un primo grande passo, che si spera – e si immagina – non sia l’ultimo.

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