Skip to main content

Prima gli Emirati, ora la Turchia. Dove va la Libia di Dabaiba? Gli effetti per l’Italia

Il governo libico sfila in Turchia. Il premier Dabaiba e i principali ministri, insieme al capo di Stato maggiore e altre figure chiave del Paese, faranno visita al principale protettore dell’esecutivo onusiano un tempo guidato da Serraj. Sul tavolo ricostruzione, accordi militari, cooperazione

Rientrato da pochi giorni dagli Emirati, il primo ministro libico, Abdelhamid Dabaiba, lunedì sarà in Turchia alla testa di una delegazione composta da 14 ministri del suo governo (Esteri, Economica, Petrolio, Edilizia e Ricostruzione tra loro) e un altro paio di dozzine di notabili di vario genere (tra cui il capo di stato maggiore militare e il presidente della Central Bank of Libya). Un incontro che arriva mentre la nuova autorità esecutiva onusiana prende slancio, visita che si inserisce in una serie di appuntamenti internazionali che hanno visto Dabaiba ricevere diversi leader tra cui l’italiano Mario Draghi.

La Turchia è un paese cruciale per la Libia, e se siamo al punto di piena fase operativa in cui il governo di unità nazionale (prodotto dal Foro di dialogo) è entrato adesso, è grazie a Ankara. I turchi sono intervenuti in guerra per proteggere il precedente esecutivo onusiano (il Gna di Fayez el Serraj) dall’assalto lanciato il 4 aprile 2019 dal capo miliziano dell’Est, Khalifa Haftar, respinto grazie alla campagna militare turca a giugno 2020. Da lì — dal cessate il fuoco dopo la sconfitta haftariana — parte il processo di stabilizzazione in corso.

Il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, è chiaramente intenzionato a trasformare il successo militare con cui ha protetto il governo Onu in influenza. Ankara — che ha dimostrato volontà e capacità di intervenire fin dove gli europei e gli americani non hanno intenzioni di spingersi (l’uso diretto della forza) — ha già stretto con Tripoli un controverso accordo marittimo per agganciare le rispettive Zee è uno di cooperazione militare: ma adesso che partirà la ricostruzione vuole più business che strategia.

Dabaiba, businessman di Misurata che nella sua prima intervista dopo l’elezione (a febbraio) all’Anadolu annunciava la volontà di avere ottime relazioni con Ankara, possiede diversi investimenti in Turchia (tra cui una cava di marmo per esempio) e conosce piuttosto bene il sistema economico-imprenditoriale che si muoverà in Libia. E sa perfettamente che da quel tipo di investimenti, che contribuiranno a far crescere l’economia libica, dipende il successo del governo ad interim che dovrà intanto portare fino alle teoriche elezioni di dicembre. Successo da cui dipende il suo futuro politico.

La Turchia ha finora appoggiato il processo Onu, sfruttando sulla Libia anche l’occasione per avviare il dialogo con l’Egitto — con cui Ankara è in scontro sul Mediterraneo orientale e con il Cairo che è stato uno dei più importanti sponsor haftariani fino alla sconfitta. Secondo gli ultimi rumors fatti circolare dal Al Arabiya (network media emiratino amico degli egiziani e nemico dei turchi), il dialogo Ankara-Cairo si sarebbe già interrotto. E sempre secondo al Arabiya, la Turchia sta continuando il proprio rafforzamento militare in Libia.

Un retrofront sulle volontà di stabilizzazione verso interessi personalistici? In realtà Anadolu riferisce anche di un colloqui tra ministri degli Esteri di Turchia ed Egitto, per uno “scambio di auguri in vista del sacro mese del Ramadan”.

Secondo gli accordi di cessate il fuoco di ottobre 2020, entro il 23 gennaio tutte le forze militari straniere avrebbero dovuto lasciare il paese, ma così non è stato. Sul lato della Cirenaica i russi e i mercenari sudanesi e ciadiani pagati dagli emiratini sono ancora sul posto; in Tripolitania la Turchia ha fatto rientrare solo un primo gruppo di guerriglieri siriani della Sultan Murad (milizia che opera sotto ordini di Ankara, che l’ha protetta durante la guerra civile contro il rais Assad e ora la usa per il lavoro sporco e coinvolgimenti ibridi).

In Libia, la Turchia ha schierato migliaia di guerriglieri siriani e poche dozzine di militari regolari. Ha preso il controllo della grande base di al Watiyah (verso il confine tunisino) dopo averla liberata dall’occupazione di Haftar. Ha ottenuto l’uso del porto di Misurata come scalo per le attività navali in mezzo al Mediterraneo. Ha creato centri di addestramento entrando in programmi di training come quello della Guardia costiera. Si tratta di posizioni di vantaggio su cui Ankara di fatto potrebbe non accettare arretramenti.

Sebbene sia l’Onu che l’Ue, gli Usa e la Nato stanno chiedendo a Dabaiba di spingere fuori dal Paese queste forze straniere. La Turchia sa che può usare la presenza libica come leva. Può accettare qualche genere di allenamento per chiedere contropartite su altri dossier o smuovere interessi diversi. D’altra parte — secondo volontà mene esplicite e più strategiche e tattiche — quella presenza è un’utile forza di interposizione (per Usa e Nato) davanti allo schieramento rivale russo in Cirenaica. Quello sì piuttosto chiuso a ogni forma di dialogo.


×

Iscriviti alla newsletter