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Chi si occuperà dell’Iraq dopo il ritiro Usa? L’Italia, al comando della Nato

Sarà l’Italia a guidare l’impegno della Nato nel sostegno all’Iraq dopo il ritiro degli Stati Uniti. Oggi, alla Casa Bianca, la firma dell’intesa tra Biden e il premier Al-Kadhimi. Sebbene sia evidente la volontà Usa di orientarsi verso altre aree (l’Indo-Pacifico), sarebbe un errore considerare il ritiro dall’Iraq come quello dall’Afghanistan. Ecco perché…

Finisce l’impegno degli Stati Uniti in Iraq per la lotta allo Stato islamico. Oggi, alla Casa Bianca, la firma sul piano di ritiro da parte del presidente Joe Biden e del primo ministro Mustafa Al-Kadhimi. L’annuncio serve a entrambi: al primo per dare sostanza alla linea di chiusura degli “impegni senza fine” in Medio Oriente, e al secondo per liberarsi dell’immagine di dipendenza dagli Stati Uniti, divenuta scomoda da gennaio 2020, quando il leader iraniano Qassem Soleimani fu ucciso nella capitale irachena. Nel mezzo anche questioni di sicurezza non da poco, considerando i numerosi attacchi alle infrastrutture americane che si sono susseguiti negli ultimi anni.

Ma sarebbe un errore considerare il ritiro dall’Iraq come quello dall’Afghanistan. È meno improvviso, più graduale e ben concordato con autorità locali e alleati, Italia in testa, destinata ad assumere il comando del nuovo impegno Nato nel Paese dal prossimo maggio. Una decina di giorni fa, come raccontato da Formiche.net, il primo ministro Mustafa Al-Kadhimi ha ricevuto una delegazione Usa guidata da Brett McGurk, coordinatore del desk Mena del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca. Si legge nella nota che “le due parti hanno discusso dei meccanismi per il ritiro delle forze di combattimento statunitensi dall’Iraq e il passaggio a una nuova fase di cooperazione strategica”, nella quale (ha spiegato oggi la Casa Bianca) resteranno attività di addestramento e il supporto a livello di intelligence. Pochi giorni prima, nell’ambito del suo tour europeo, Al Kadhimi era stato a Roma per incontrare Mario Draghi.

Il mese scorso, il ministro Luigi Di Maio e il segretario di Stato americano Tony Blinken hanno co-presieduto a Roma la riunione ministeriale della Coalizione globale per la lotta all’Isis, contesto nel quale si colloca l’impegno americano in Iraq.  Nella nota congiunta della riunione, i ministri della Coalizione hanno “accolto con favore la progressiva espansione delle attività non-combat della missione Nato, di consulenza, di addestramento e di capacity building in Iraq, basate sulle esigenze e sul consenso delle autorità irachene, e complementari agli sforzi della Coalizione”. Fa il paio con quanto deciso due settimane fa dai leader dell’Alleanza Atlantica riuniti a Bruxelles: “rafforzeremo il nostro sostegno all’Iraq attraverso la nostra Nato mission Iraq; amplieremo la nostra missione di consulenza, addestramento e capacity building non-combat per sostenere il Paese nella costruzione di istituzioni e forze di sicurezza più efficaci, sostenibili, responsabili e inclusive”. L’incremento della missione Nato sarà “demand-driven, incrementale e scalabile, basato sulle condizione sul campo”.

Il potenziamento del ruolo dell’Alleanza Atlantica nel Paese è noto da tempo. A settembre 2020, gli Stati Uniti ufficializzavano l’intenzione di ritiro parziale delle truppe presenti nel Paese dal 2014, da 5.200 a 2.500 unità. Visto il periodo, poteva apparire una mossa elettorale di Donald Trump, in linea con simili ridimensionamenti annunciati per Siria e Afghanistan. In realtà, Trump aveva parlato del ritiro direttamente con il premier Mustafa Al-Kadhimi ad agosto. Due mesi prima, i governi di Washington e Baghdad avevano inaugurato un nuovo “strategic dialogue”, funzionale proprio a coordinare le pianificazioni in atto. Si è riunito a livello ministeriale quattro volte prima della visita odierna, corredata da una serie di incontri che hanno coinvolto il dipartimento di Stato e il Pentagono.

Tra l’altro, la mossa americana seguiva quanto concordato in ambito Nato. L’Alleanza aveva già deciso (febbraio 2020) di potenziare la propria “training mission”, ereditando competenze dalla Coalizione anti-Isis, passando da 400 a cinquemila unità. Il tutto rispondeva soprattutto all’obiettivo di abbassare il profilo degli Stati Uniti in Iraq, divenuto complesso (e sovraesposto) dopo l’uccisione a gennaio 2020 del leader iraniano Qassem Soleimani.

Chiaramente, considerando le manovre di ritiro dall’Afghanistan e il contestuale potenziamento dell’attenzione verso l’Indo-Pacifico, per gli Usa c’è anche la manifestazione della nota volontà di indirizzare la propria postura militare verso aree ormai ritenute più strategiche (qui il focus). In tal senso, il ri-orientamento della postura per il confronto a tutto tondo con la Cina è sempre stato accompagnato da Washington con la richiesta rivolta ad alleati e partner ad assumersi maggiori responsabilità negli scenari di loro diretto interesse. È anche il caso dell’Iraq.

A rispondere con determinazione è stata da subito l’Italia. Nel 2020 il nostro Parlamento ha autorizzato un dispiegamento di 1.100 unità per l’operazione Prima Parthica, all’interno della Coalizione anti-Daesh, e di 46 unità per la Nato training mission. Con il progressivo potenziamento della missione dell’Alleanza anche il contributo italiano ai due impegni è destinato a mutare. Il Consiglio dei ministri ha approvato a metà giugno la delibera sulle missioni internazionali, ora al vaglio del Parlamento. Vi si può apprezzare il parziale spostamento di assetti dalla Coalizione alla missione Nato, con la prima che vede autorizzato un dispiegamento massimo di 900 unità (200 in meno rispetto al 2020) e la seconda che sale a circa 280 unità (oltre 200 in più rispetto al 2020). Il tutto in vista dell’assunzione del comando della missione Nato a maggio del prossimo anno, quando terminerà il turno danese, un obiettivo annunciato dal ministro Lorenzo Guerini diversi mesi, e già ufficializzato nell’agenda dell’Alleanza Atlantica. Il legame tra Roma e Baghdad è d’altra parte solido, come dimostrato dai frequenti viaggi (ben quattro in poco più di un anno) del titolare della Difesa italiana nel Paese mediorientale.

Ciò risponde a interessi ben precisi, che vedono sommarsi alla lotta al terrorismo quelli di natura strategica ed economica. Secondo i dati dell’Unione energie per la mobilità (Unem), nel 2020 l’Iraq è stato il secondo fornitore di greggio al nostro Paese (preceduto solo dall’Azerbaijan), coprendo oltre il 17% della domanda nazionale. Nel 2019 era al primo posto, con una quota del 20%, mentre nei primi quattro mesi del 2021 si colloca al quarto posto, dopo Azerbaijan, Libia e Arabia Saudita.

“L’impegno italiano in Iraq viene da lontano – ha scritto sull’ultimo numero di Airpress il generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa. “All’ingaggio militare di trent’anni fa (Desert Storm è stato il nostro primo evento bellico dal 1945) e alle successive missioni di pace, andrebbe aggiunta una lunga serie di attività economiche e industriali, susseguitesi negli anni con alterna fortuna; tra queste vanno ricordate quelle di raffinazione, con l’affidamento a ditte italiane della progettazione di nuovi impianti e l’aggiornamento di quelli esistenti, la progettazione e costruzione di nuovi oleodotti e anche di una decina di centrali elettriche a combustione”. Più recente e nota la manutenzione (e la protezione militare) della difesa di Mosul. “Molte di queste attività – ha aggiunto Arpino – sono state prima disturbate dalla guerra di George Bush junior e, successivamente, dalla nostra affrettata decisione di ritirare la missione Antica Babilonia; secondo il sentiment degli iracheni la gestione Usa è stata assai deludente, come pure quella di chi ha provato a colmare il nostro vuoto; oggi, di fatto, gli iracheni rimpiangono la presenza degli italiani: se restiamo bene accetti come militari, lo siamo altrettanto come attori compartecipi della ricostruzione”.

“Per le attività civili – ha rimarcato Arpino – l’eventualità di un nostro consistente ritorno era stata anticipata fin dal marzo 2019 nel corso dell’Iraq Day, in cui Confindustria aveva favorito un incontro romano tra imprenditori italiani e iracheni, preceduto da altri eventi organizzati da Confcommercio; la guida della missione militare della Nato potrebbe essere il coronamento di tutte le attività sinora realizzate o progettate; sappiamo non solo che in Iraq, dopo tante delusioni, la nostra presenza sarà apprezzata, ma anche che è sin d’ora già attesa”.


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