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L’America torna al pre-Covid, la Cina spaventa gli investitori

Oxford Economics certifica il ritorno dell’economia statunitense ai livelli pre-Covid, complice la spinta arrivata dai consumi e i piani di Biden. Mentre Pechino sconta ancora gli effetti di un debito fuori controllo: ora le obbligazioni cinesi rendono meno e gli investitori se la svignano

La lepre e la tartaruga. Le due principali economie del mondo, Stati Uniti e Cina, vivono due momenti molto diversi. I primi sono tornati ad assaporare una crescita su livelli pre-pandemia, tanto a fissare l’asticella del Pil 2021 al +6,5%. E questo nonostante le incognite della variante Delta, che ancora rappresentano una minaccia molto concreta all’economia americana. A est invece si scontano gli effetti collaterali di un debito sovrano e societario ormai fuori controllo, in grado di annullare una crescita annua che Pechino si ostina a mantenere inchiodata all’8%. Gli Usa, insomma, corrono mentre la Cina ha il fiato corto.

Gli economisti di Oxford Economics, uno dei centri studi più autorevoli al mondo, hanno pochi dubbi: al di là dell’Atlantico, almeno da un punto di vista economico, si respira aria di pre-pandemia. “L’economia statunitense”, scrivono gli esperti nel report dedicato agli Usa, “ha superato il suo momento più difficile nel secondo trimestre, recuperando la produzione persa durante la recessione indotta dal Covid. Prevediamo che lo slancio continuerà nel 2022, sostenuto dalla solida domanda del settore privato e dallo stimolo fiscale (i piani pandemici di Biden e il sostegno della Fed, ndr) in corso. Per questi motivi abbiamo ridotto di 0,9 punti percentuali le nostre previsioni di crescita del Pil del 2021 al 6,1%, ma abbiamo aumentato le nostre previsioni per il 2022 di 0,6 punti percentuali, al 4,8%”.

Se gli Stati Uniti sono fuori dalla tempesta, almeno per ora, è merito soprattutto della ripresa dei consumi, i quali però potrebbero surriscaldare i prezzi e dunque l’inflazione. “I consumatori hanno aperto i loro portafogli da giugno e hanno abbracciato un’estate di spesa. Hanno fatto pazzie sui servizi, generando una crescita dell’8,8% quest’anno, il tasso più elevato dalla seconda guerra mondiale”. Questo anche grazie al fatto che “i posti di lavoro sono aumentati di ben 943 mila unità a luglio e alla previsione di 7,5 milioni di nuovi impiegati a fine 2021”.

Non si può dire la stessa cosa della Cina. Il Dragone sì ha ripreso a crescere, ma con l’ombra di un debito a rischio big bang. Senza considerare alcune scelte di Pechino, si veda la crociata contro il fintech, che finora hanno avuto l’unico effetto di depauperare parte del patrimonio dei ricchi d’Asia, Jack Ma su tutti. Gli investitori internazionali continuano a temere la fragilità del debito cinese.

Al punto che le mosse di Pechino stanno diffondendo sui mercati globali, soprattutto tra quegli investitori che hanno fatto il pieno di titoli pubblici del Dragone. Il fatto, ha scritto il Wall Street Journal, è che le obbligazioni cinesi sono ora così ampiamente detenute che le oscillazioni dei loro prezzi stanno influenzando anche i fondi obbligazionari non specializzati nei Paesi in via di sviluppo, compresi i fondi gestiti da società, per esempio, quali Pacific Investment Management e BlackRock.

Di conseguenza, la sotto-performance dei titoli cinesi sta spingendo molti investitori a cedere grossi stock di titoli pubblici. Non è tutto. Un deprezzamento si registra anche tra i bond emessi dal governo centrale per finanziare il sistema scolastico, le società immobiliari (fortemente indebitate) e l’innovazione tecnologica. Gioie americane, guai cinesi.



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