Per la Turchia, i droni sono un metodo per collegare le forniture militari alle questioni di politica internazionale. Ankara si muove dove altri non fanno, e così gioca influenza anche con il consenso degli Usa
Quattro giorni fa il primo velivolo senza pilota turco è arrivato in Marocco (il paese che per quest‘anno prospetta la crescita economica più alta nella regione nordafricana). I droni che Ankara invierà a Rabat saranno in totale dodici, secondo un accordo dell’aprile scorso passato troppo inosservato per la sua importanza tattico-strategica. Le forze marocchine riceveranno i Bayraktar TB2, sistemi tecnologici altamente performanti prodotti dalla Baykar — società specializzata a conduzione familiare dove la figura chiave è il consuocero di Recep Tayyp Erdogan, e in cui il CTO è Selçuk Bayraktar, ingegnere classe ‘79 molto in gamba e sposo della figlia Sümeyye del presidente turco.
I droni (non solo i TB2, ma anche altri modelli) sviluppati dalla famiglia Bayraktar e da altre società sono la Via della Seta turca, perle di una catena di alleanze che va dalla Libia alla Siria, dal Nagorno-Karabakh all’Ucraina e Qatar, ora in Marocco con destino di allargarsi a altri Paesi africani (per esempio la Tunisia, con un prodotto della Turkish Aerospace Industry, gli Anka-S), mediorientali (l’Arabia Saudita è in colloqui e il contatto ha valore enorme nelle dinamiche intra-sunnismo) o asiatici (Kazakistan e Indonesia stanno discutendo queste stesse forniture).
I droni turchi funzionano: hanno respinto una campagna governativa siriana (leggasi russa) su Idlib; sono stati protagonisti nella difesa vittoriosa del governo onusiano di Tripoli sotto l’assalto dei ribelli dell’Est; hanno portato al successo azero sul Karabakh; sono un deterrente che Kiev può usare contro i separatisti del Donbas (se dovessero essere attivati al di là del pattugliamento/monitoraggio).
I TB2 sono iper efficaci, lavorano a lungo raggio in missioni hunter-killer, e come detto hanno portato risultati sul campo – anche per questo Ankara non disdegna di usarli. Per questo sono allettanti. Il CEO di Roketsan, una delle altre importanti aziende dell’industria e della difesa militare turca, sostiene che il punto di forza dei TB2 sta nei sistemi di munizioni intelligenti di piccole dimensioni supportati; quelle bombe a guida laser le produce la sua azienda, dunque tira acqua al proprio mulino, ma ciò che dice è sostanzialmente vero.
Sono anche più allettanti se si pensa che produttori come gli Stati Uniti e altri paesi occidentali rinunciano a fornire certi armamenti a molti paesi — sostanzialmente quasi a tutti coloro che non hanno track-record eccezionali sul piano della democraticità e della gestione della politica estera, tanto più quando si parla della versione armata. Aspetto che Ankara valuta in modo meno severo.
Lo stesso fa la Cina, ma che le acquisizione internazionali virino verso i prodotti turchi, davanti all’offerta cinese, non dispiace a Washington – perché la Turchia è membro Nato e parte di un sistema di contatto con l’Occidente certamente migliore rispetto a Pechino o Mosca, sebbene gli Stati Uniti con le forniture d’armi ai turchi abbiano avuto il problema F35/S400. Per spiegare: il Kazakistan — membro degli Stati Uniti del Mondo Turco, in mezzo alla BRI — ha cambiato scelta e i droni turchi andranno a sostituire i prodotti cinesi. I TB2 li vogliono anche i sauditi, e la richiesta è arrivata in mezzo alle distensioni tra Riad e Ankara che stanno seguendo la riconciliazione di Al Ula (l’Arabia Saudita ha per tanto tempo chiesto droni armati agli Usa, prima di sopperire i no con l’acquisto di Wing Loong cinesi; ora guarda a Ankara).
I droni di Ankara sono l’esempio plastico di come la tecnologia (militare) sia catalizzatore di dinamiche di politica estera e geopolitica. Un lavoro iniziato all’inizio del Duemila, che ha portato anche l’industria militare turca a crescere oltre i tre miliardi di dollari l’anno di export. Ankara si è trasformata in esportare, ossia in un partner attraverso cui Paesi più piccoli possono trovare soddisfatte le proprie necessità.
Per tornare sulla cronaca: in Marocco i droni serviranno contro il Fronte Polisario che in estate si è rafforzato nel Sahara Occidentale – territorio che l’amministrazione Trump ha barattato in cambio della normalizzazione delle relazioni marocchine con Israele. Con un ritorno di influenza da trovare su altri campi: per esempio, dando droni al Marocco esercita pressione sull’Algeria; che recentemente è entrata in una fase di tensione con Rabat; che è un partner commerciale della Turchia ma non strategicamente allineato (mentre Ankara guarda verso l’Atlantico); che è l’unico paese del Nordafrica centro-occidentale a non avere ancora asset militari turchi (li ha il Marocco, li ha la Libia, li avrà la Tunisia, non li avrà l’Egitto per ragioni di distanza politiche).
Contemporaneamente questo ruolo da attore nel settore militare – in particolare in un mondo altamente tecnologico e ricercato come quello dei velivoli senza piloti – è apprezzato dai big. Per esempio, Londra, che compete su altri settori con Ankara, ha spinto la cooperazione della BAE Systems sul grande progetto di un caccia turco, apprezzando come i droni turchi siano in grado di “cambiare il corso delle guerre” (parole del segretario alla Difesa).