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Che cosa racconta degli Usa l’audizione dei generali in Senato

I vertici della Difesa seduti davanti ai senatori statunitensi dimostrano quanto conta e quanto non conta il loro ruolo nel processo decisionale della presidenza, e quanto siano importanti i checks & balances della Democrazia. Dall’Afghanistan a Russia e Cina, uno spaccato degli Usa

L’audizione alla Commissione Servizi armati del Senato del capo dello Stato maggiore congiunto, Mark Milley, e di uno dei suoi top generali, il comandante del CentCom Kenneth McKenzie, è un utile promemoria su quanto sia importante negli Stati Uniti il ruolo dei militari (tanto, o tanto poco, vedremo). Seduti a fianco del capo del Pentagono, il segretario Lloyd Austin (anche lui proveniente dal mondo militare, un’eccezione per un ruolo che viene assegnato di solito a un civile), martedì 28 settembre i leader delle Forze armate del più grande esercito al mondo hanno parlato lungo il confine tra sfera politica e militare su almeno tre dossier.

Il più caldo, l’Afghanistan. Milley e McKenzie hanno sostanzialmente smentito buona parte delle dichiarazioni del presidente Joe Biden, criticandone le scelte sul ritiro dal Paese e mettendo in guardia sugli effetti negativi di queste. È stato un “successo logistico, ma un fallimento strategico”, ha detto Milley del ritiro, che invece il 31 agosto Biden aveva definito “un successo straordinario”. McKenzie ha dichiarato che non avrebbe parlato dei suoi consigli personali al presidente in quella sede (a porte aperte), ma ha aggiunto: “Avevo raccomandato [al presidente] di mantenere 2.500 soldati in Afghanistan” e lui non l’ha fatto.

Circostanza confermata anche da Milley e Austin, il quale ha anche aggiunto che l’idea di uscire dal Paese entro l’11 settembre — in occasione del ventennale del 9/11 — “non era una raccomandazione del mondo militare”. Il Pentagono, ha spiegato McKenzie, aveva ben chiaro – dallo scorso autunno almeno – che lasciare l’Afghanistan avrebbe significato consegnarlo in mano ai Talebani. “Nessuno me lo ha detto, che io possa ricordare”, ha dichiarato Biden lo scorso mese in un’intervista alla ABC in cui gli veniva chiesto se avesse ricevuto consigli sul non ritirarsi. Milley, davanti alle pressioni del senatore repubblicano Tom Cotton che gli chiedeva di dimettersi dopo non essere stato ascoltato, ha precisato: “Il presidente non deve essere d’accordo con i nostri consigli solo perché siamo generali […] Questo paese non vuole che i generali decidano quali ordini seguire o meno […] Mio padre non ha avuto la possibilità di dimettersi a Iwo Jima”. È un eccezionale esercizio di democrazia.

Sono passaggi che raccontano di come il mondo militare abbia avuto tanta poca influenza sulla decisione di lasciare l’Afghanistan: a Capitol Hill e alla Casa Bianca è stata la politica a scegliere di abbandonare la più lunga guerra della storia americana. Lo si è fatto davanti alle pressioni degli elettori, che ne sentivano un peso mentale, sebbene adesso — differentemente dal passato — i costi di quell’ultimo contingente ritirato erano minimi, sia in stretti termini economici che dal punto di vista delle vittime subite durante le operazioni. Erano 2500 uomini che però si portavano dietro una grande significato simbolico, sia per gli elettori che per i Talebani (che difficilmente sarebbero mai arrivati a rovesciare il governo se truppe statunitensi fossero state nel Paese), che per i rivali strategici come Cina e Russia.

Sebbene va detto che la decisione politica di lasciare l’Afghanistan sia connessa anche alla volontà strategica di lasciare le due rival powers ad affrontare da sole un dossier complicato. Anzi, l’occasione sta portando un potenziale allineamento russo-americano. Se è vero infatti, come ricordato dai tre leader militari al Senato, che i Talebani non hanno rotto i legami con al Qaeda, allora i contatti di Milley per sfruttare la possibilità di attività cooperative tra Mosca e Washington attraverso le basi centro-asiatiche russe sono una mossa dal grande potenziale. In questo caso il mondo militare ha ruolo di contatto e contrattazione su qualcosa che vale più di eventuali operazioni di anti-terrorismo. La Russia ha una stretta collaborazione militare con la Cina, ma è disposta a fare eccezioni perché teme la stabilità della propria sfera di influenza e si mostra aperta a una qualche forma di dialogo con gli Usa.

Questi contatti condotti dai generali esistono al di là delle distanze formali e politiche tra Paesi; e sono importantissimi. Milley ha parlato anche di una altro filo comunicativo tra gli Usa e un’altra potenza rivale, la Cina. Il generale ha raccontato di come sono andate le cose scritte nel nuovo libro di Bob Woodward, “Peril”. Il giornalista (insieme a Robert Acosta) ha scritto che Milley in persona si era occupato di rassicurare Pechino che Donald Trump non avrebbe attaccato a sorpresa la Cina nei suoi ultimi giorni di presidenza. Alcuni congressisti repubblicani hanno accusato Milley di essere un traditore, e chiesto le sue dimissioni, dopo le rivelazioni del libro. Milley, testimoniando al Senato, ha ribadito di aver agito in modo appropriato, senza secondi fini, ma con l’unico intento di portare la situazione a una de-escalation.

“Io ho il compito specifico di comunicare con i cinesi ai sensi delle politiche guida del Dipartimento di Giustizia, per via del mio ruolo. Queste comunicazioni tra esponenti militari di alto livello sono critiche per assicurare la sicurezza degli Stati Uniti nell’impedire azioni militari non volute, gestire crisi e prevenire guerre tra le grandi potenze armate delle più letali armi che il mondo conosca”, ha detto. Per questo, “le chiamate del 30 ottobre 2020 e dell’8 gennaio 2021 sono state coordinate rispettivamente con lo staff del Segretario Ester e del Segretario ad interim Miller, e con le altre agenzie federali. Il motivo specifico di queste chiamate è stato la preoccupante informativa di intelligence secondo cui i cinesi temevano un possibile attacco militare americano contro di loro”. Ancora: “Io so, per certo, che l’ex Presidente Trump non intendeva attaccare i cinesi, e per questo era mia diretta responsabilità, e mi era stata data diretta responsabilità da parte del Segretario alla Difesa, di riferire questo ai cinesi”, aggiunge Milley.

L’8 gennaio il Capo di Stato Maggiore ha anche avuto una telefonata con la Speaker della Camera Nancy Pelosi: la chiamata era uscita sui giornali con un certo clamore (e spin politico da parte dei Democratici), collegata all’invasione dei fanatici trumpiani al Congresso di due giorni prima. La leader democratica aveva chiamato il capo dei militari per discutere se e come tagliare fuori Trump dalla catena di comando sulle armi atomiche. In Peril si rivela che Milley si sarebbe detto d’accordo con lo Speaker sul fatto che Trump fosse “pazzo”. “Ho cercato di rassicurare [Pelosi] sul fatto che il processo che governa il lancio di testate nucleare sia specifico e deliberato. Lei era molto preoccupata e aveva fatto diversi riferimenti personali all’ex Presidente”, ha detto Milley: “Io ho spiegato a lei che il Presidente è l’unica autorità che ha il potere di lanciare armi nucleari, ma che non le lancia da solo. E che io non sono qualificato a determinare la salute mentale di un Presidente degli Stati Uniti. Ci sono processi, protocolli e procedure in essere, e io l’ho ripetutamente assicurata che non vi era alcuna possibilità di un lancio illegale, non autorizzato o accidentale di missili nucleari”.

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