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Ecco perché Riad vuole nuove armi prima della pace in Yemen

Nuove armi per difendersi prima di un cessate il fuoco con gli Houthi. Secondo la Reuters il dialogo tra Usa e Arabia Saudita è “molto difficile”. Le indiscrezioni uscite nei giorni della Davos del Deserto

Gli sforzi per porre fine alla guerra che ha ucciso decine di migliaia di persone e spinto lo Yemen sull’orlo della carestia sono in fase di stallo, con gli Houthi che affermano che la coalizione deve smettere di bloccare i porti e l’aeroporto di Sanaa prima che possano iniziare i colloqui per il cessate il fuoco. Ma Riad, prima di procedere con allentamenti, vuole che gli Stati Uniti inviino nuovi sistemi d’arma per proteggere il proprio territorio. È quanto hanno riferito in esclusiva alla Reuters due fonti con conoscenza degli sforzi per porre fine alla guerra in Yemen e un funzionario degli Stati Uniti.

Washington, con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, ha riportato i rapporti con i sauditi su una linea più classica rispetto al predecessore. Ha intensificato il controllo sulla situazione dei diritti umani di Riad, ha ritirato il sostegno alle operazioni offensive della coalizione in Yemen e ha pubblicato un rapporto dell’intelligence statunitense che implicava il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman nell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018. Accuse negate dal factotum del regno, che nel frattempo si è visto bloccare dal Congresso anche una commessa militare già decisa.

Il nodo critico è la difesa aerea, che si porta dietro una dimensione tecnica e una più ampia, politica. Recentemente alcune batterie Patriot americane sono state spostate dall’Arabia Saudita mentre altre sono arrivate in Australia, segno della priorità affidata da Washington al quadrante indo-pacifico rispetto a quello mediorientale: aspetto politico che preoccupa non poco Riad, sebbene in parte rassicurato dall’invio di altre anti-aeree dalla Grecia e dalla promessa che prima o poi, quanto meno le basi americane, potrebbero essere protette dal sistema israeliano Iron Dome.

L’Arabia Saudita soffre l’essere scoperta dal cielo: gli Houthi, che Riad combatte dal 2015 (senza successi), hanno aumentato le proprie capacità offensive anche grazie al supporto militare ricevuto dai Pasdaran. Hanno più volte colpito il territorio saudita, causando anche danni enormi – come nel settembre 2019, quando due impianti petroliferi finirono sotto una salva di droni e missili da crociera causando il blocco delle produzioni del regno. Preoccupata della situazione, Riad vuole far coincidere la fine dei blocchi portuali con l’adesione degli Houthi alle richieste di cessate il fuoco e con l’arrivo di nuove difese dagli Stati Uniti.

Gli Houthi, che affermano di combattere un sistema corrotto nello Yemen, vogliono da parte loro che i blocchi siano revocati prima dell’accordo di cessate il fuoco. I blocchi marittimi della coalizione saudita sono imposti da navi da guerra che filtrano i cargo commerciali già autorizzati da un meccanismo delle Nazioni Unite. Quelle navi dovrebbero dirigersi verso i porti controllati dagli Houthi, tra cui Hodeidah sul Mar Rosso: i blocchi impediscono gli sforzi di soccorso umanitario (necessari in un territorio disastrato dalla guerra), ma l’alleanza guidata dai sauditi afferma che sono necessari per prevenire il contrabbando di armi degli Houthi.

In parte è così, in parte è una forma di pressione: se non arrivano aiuti ai territori controllati, i ribelli yemeniti possono subire il malcontento dei cittadini e dunque aver meno presa nei propri territori, in definitiva essere meno forti. È in corso una guerra informativa che passa anche da questo genere di operazioni psicologiche. Il capo negoziatore Houthi, Mohammed Abdulsalam, ha detto alla Reuters che il gruppo è pronto a lavorare con il meccanismo di ispezione delle Nazioni Unite con sede a Gibuti (Unvim) se il blocco verrà revocato.

In queste settimane ci sono stati diversi contatti tra i funzionari statunitensi e le controparti saudite. Tra questi, il consigliere per Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, e il capo della sezione Medio Oriente del Consiglio, Brett McGurk, hanno incontrato, insieme all’inviato speciale per lo Yemen, Timothy Lenderking, l’erede al trono bin Salman. Le fonti della Reuters descrivono quel faccia a faccia come “molto difficile”.

Un aspetto interessante di quanto riportato riguarda la tempistica con cui escono certe indiscrezioni. In questi giorni, Mohammed bin Salman è impegnato a raccogliere i frutti della Future investement initiative. L’iniziativa oltrepassa gli aspetti legati alla politica economica e alla finanza, e pure quelli che riguardano la transizione energetica: seppure di prima importanza, sono tutti vettori perché la “Davos del Deserto”, come viene chiamata, è un palcoscenico in cui – da Riad – bin Salman intende mostrare al mondo il suo Paese (e se stesso) come un attore centrale per il destino globale.

Detto semplificando, sembra come se qualcuno, via Reuters, intendesse mitigare l’effetto delle riunioni – in cui i sauditi hanno incassato l’ok da 44 multinazionali che intendono allestire le loro nuove sedi regionali in Arabia Saudita, investimenti da cui il governo di Riad spera di aggiungere 18 miliardi di dollari all’economia locale e creare 30mila nuovi posti di lavoro entro il 2030, e che diventa parte di un più ampio piano di diversificazione economica del petrolio e crescita del regno. O quanto meno si intenda mandare un messaggio laterale a esse.


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