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Un po’ di cose che non vanno nel Digital Markets Act

I regolamenti che intendono disciplinare la vita digitale (dunque, la vita) dei cittadini europei sono scritti per punire i giganti della Silicon Valley. Ma occhio: una volta azzoppati loro, non fiorirà l’industria europea, bensì avranno campo libero cinesi e russi, che sono già qui e pronti a dominare il mercato legale e illegale. Meglio costruire un’alleanza tech basata su principi comuni

In queste settimane ho sviluppato una piccola ossessione. L’idea di puntare un faro, o almeno la torcia del telefonino, su quello che succede a Bruxelles prima che sia troppo tardi, prima che un nuovo pacchetto di regole piombi nell’ordinamento italiano come il meteorite che causò (pare) l’estinzione dei dinosauri. Noi italiani siamo come certi T-rex, gagliardi e rumorosi finché non ci troviamo a fissare con la bocca aperta i resti fumanti di un killer che viene da lontano.

È successo con plastic tax e sugar tax, che persino il governo decisionista ed europeista di Mario Draghi ha rinviato – in perfetto stile contiano – perché nefaste per alcune industrie. Dopo aver rimandato per anni l’applicazione della direttiva Bolkestein (del 2006!), il governo 5Stelle-Lega aveva prorogato le concessioni demaniali al 2033, mentre quello attuale ne ha infilato qualche avanzo nel disegno di legge sulla concorrenza presentato ieri. Simile destino per la direttiva Copyright: approvata nel 2019 dal Consiglio europeo (con il voto contrario dell’Italia), dimenticata per due anni e poi strapazzata nel testo che dovrà recepirla, senza che nessuno se ne sia accorto, salvo gli addetti ai lavori.

SCUSI, LEI È DMA O DSA?

Ora è il turno di Dma e Dsa, i due regolamenti che disciplineranno la vita digitale dei cittadini europei. La parola digitale, nella frase precedente, è pleonastica. Quasi tutto ciò che conta nelle nostre vite passa sulle piattaforme pubbliche (pensiamo a Spid e ai 113 milioni di Green Pass scaricati finora) o private (Google, Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Booking, Microsoft, Zoom) e in un anno di pandemia abbiamo fatto un salto tecnologico di almeno cinque anni, come ha scritto Alessandro Baricco.

Eppure, pochi conoscono il contenuto di questi pacchetti di norme, o come vogliano regolare le grandi piattaforme (chiamate anche nella traduzione ufficiale italiana gatekeeper, immagino perché suona meglio di uscieri). Forse questo deficit di approfondimento è legato al fatto che i media europei considerano i gatekeeper la causa principale della loro crisi: perché mai aprire un dibattito se qualcuno vuole randellarli?

Ecco, io invece sono un ottimista che crede negli effetti positivi dell’innovazione – senza la quale non potreste leggere questo articolo – e dubita che l’Europa possa dotarsi di una industria tecnologica per decreto. Non potendo affrontare tutti i punti controversi di Dma e Dsa, mi concentrerò su un paio di questioni legate al primo.

BIG TECH CATTIVE, CINA BUONISSIMA

Il Digital Markets Act (Dma) ha come relatore un europarlamentare tedesco che ha paragonato le Big Tech americane agli oligopolisti che spianarono la strada a Hitler. Andreas Schwab (Cdu/Ppe) ha poi proposto di emendare il testo presentato dalla Commissione, che includeva tra i circa venti gatekeeper anche aziende europee e cinesi, per limitarne l’applicazione alle cinque aziende americane più grandi. Questa mossa è stata criticata dall’amministrazione Biden, che nel frattempo ha istituito con l’Unione europea il Ttc, Trade and Technology Council, per avere un canale di comunicazione stabile e amichevole in settori in cui non regna un clima facile, e punta a una “alleanza delle democrazie” per applicare princìpi condivisi al mondo tecnologico.

Schwab in questi giorni ha descritto i gatekeeper come “nemici del mercato libero”. Tocca precisare: non quelli che si sono macchiati di condotte anticoncorrenziali, proprio tutti i gatekeeper, in quanto tali. Eppure nella stessa frase l’eurodeputato riconosce che il regolamento su cui sta lavorando avrà effetti molto pesanti proprio sul funzionamento del mercato libero. È chiaro l’intento: togliendo fette di mercato alle aziende della Silicon Valley a colpi di legislazione, finalmente le tech europee potranno fiorire, sull’onda di quella sovranità digitale cara a qualche commissario europeo (e a pochi altri). Il dettaglio che omette, però, è che una volta azzoppati i giganti americani, saranno i cinesi a prendere il loro posto, in barba a regole di mercato, concorrenza leale o diritti umani.

Eh sì, perché il Dma versione Schwab considera gatekeeper chi ha un valore di mercato di almeno 100 miliardi e un giro d’affari europeo di 6,5 miliardi in tre anni. Di fatto, neanche Alibaba rientrerebbe nella categoria, perché i suoi affari si chiudono quasi tutti in Cina. Liberi di scorrazzare senza vincoli antitrust anche TikTok, social in ascesa rapidissima in mancanza di scrutinio pubblico, e poi Tencent, Didi, Huawei, Zte, che operano negli stessi mercati delle Big Five americane ma sono sotto lo schiaffo del regime cinese. Alcune tra queste, attraverso il dumping sui prezzi, hanno distrutto l’industria europea delle telecomunicazioni, senza che le istituzioni di Bruxelles battessero ciglio. Eppure ora considerano realistico e corretto costruire, via regolamento, social network e motori di ricerca, commercio online e sistemi operativi, senza ammettere che uno dei freni al loro sviluppo è proprio l’eccesso di regolamentazione che affligge gli imprenditori del Vecchio continente.

LA SICUREZZA DEI DATI È SICURAMENTE A RISCHIO

Uno degli obiettivi principali del Dma è “obbligare i gatekeeper a garantire un accesso a parità di condizioni al sistema operativo, all’hardware o alle componenti software, nonché l’interoperabilità con tali elementi, che sono disponibili o utilizzati nella fornitura di qualsiasi servizio ausiliario da parte del gatekeeper”. In poche parole, consegnare algoritmi, codici sorgente e proprietà intellettuale a società terze così che anche queste possano svilupparsi e non siano sottomesse al potere di mercato dei gatekeeper, che potrebbero opporre non meglio definiti correttivi a questa apertura forzata.

Senza entrare nel dibattito tra sistemi aperti e chiusi – le aziende spingono per i secondi per ovvi interessi monopolistici e perché consentono standard di sicurezza uniformi in tutti gli snodi cruciali, mentre nei sistemi aperti si possono creare punti di accesso e debolezze difficili da controllare – è interessante notare una voragine legislativa: non c’è nessuna limitazione geografica. Non si parla di aziende europee, come spesso accade nel diritto comunitario: chiunque grazie al Dma può bussare alla porta di Apple o Facebook e ottenere segreti industriali con l’obiettivo di far funzionare meglio i propri prodotti. Campo libero per società cinesi e russe, e dunque ai rispettivi regimi, che ne controllano l’attività spesso con obiettivi geopolitici (e malevoli), e soprattutto le obbligano a condividere dati con le agenzie governative senza che gli utenti abbiano voce in capitolo.

L’Ocse ha prodotto una interessante ricerca sul bilanciamento tra “apertura” e sicurezza: è giusto dare alle persone maggior controllo sui propri dati, ma obbligare le società a condividere informazioni sensibili porta ad abusi e deprime gli investimenti: perché faticare per creare nuovi algoritmi, prodotti e software se poi si è costretti a consegnarli ai concorrenti? Peraltro, oggi le multinazionali spendono miliardi – e si giocano la reputazione – per evitare i data breach. Non tutti sono in grado di garantire simili livelli di protezione, o sono interessati a farlo.

L’EUROPA VUOLE ESSERE UNA “SUPERPOTENZA REGOLATORIA”. POVERINA

Riusciremo a parlare di Dma e Dsa senza farci accecare dalla furia punitiva nei confronti dei giganti tecnologici? I quali, peraltro, in questi anni hanno corretto molte storture non grazie alla legislazione – che negli Usa è ferma al secolo scorso ed è oggi impantanata in cinque diverse proposte al Congresso – ma a dinamiche meno codificate eppure efficaci. Chi ha abusato della propria posizione dominante è stato punito dagli utenti o dal successo dei rivali o dalle istituzioni che hanno già ampi strumenti di intervento.

L’idea che l’Europa, non riuscendo a competere sul mercato, punti a essere la terra dei lacci burocratici, una regulatory superpower, è piuttosto triste. La Silicon Valley non è mica un posto magico: deve il suo successo alla ricerca fatta (in particolare dalla Difesa) con soldi pubblici, alle università, a un sistema aperto che ha permesso a grandi innovazioni di correre prima di essere regolate. Da noi invece prevale la tecnica dello sgambetto: non riesco a vincere la gara con le mie gambe, allora rallento tutti gli altri. Non sarebbe male ribaltare il paradigma in chiave più costruttiva.

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