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In Etiopia il Nobel per la pace va in guerra, e il Paese rischia di esplodere

La guerra in Etiopia non si ferma, il premier Abiy Ahmed è convinto di poter vincere e schiacciare i nemici tigrini, mentre le divisioni etniche si esasperano e il rischio è che la federazione deflagri

“Stiamo vincendo”, dice in un video dal fronte di guerra nel Tigray il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, già Premio Nobel per la Pace negli anni in cui l’Occidente lo identificava come un portatore di democrazia in Africa – quella stessa democrazia che, come ricordava su queste colonne Bakary Sambe (Timbuktu Institute), nel continente è in declino dopo un faticoso e mai completo attecchimento.

La guerra tra le forze governative di Addis Abeba e i ribelli tigrini – noti come Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (Tplf) – è un esempio di come procedono queste crisi. E non solo perché è esplosa davanti alla decisione del governo di non tenere le elezioni lo scorso anno, a causa della pandemia – elezioni che il Tigray ha comunque celebrato, suscitando la reazione dura dell’esecutivo che, sfidato, aveva militarmente isolato la regione, portando i ribelli allo scontro.

Gran parte dell’Etiopia settentrionale è tagliata fuori dal mondo perché il governo ha chiuso ogni genere di comunicazione e non permette l’accesso ai giornalisti. Sono i due fronti che raccontano la guerra, da un lato la propaganda di Abiy Ahmed – “Il morale delle truppe è alto”, “vinceremo”, dice dal campo con mimetica e arma in mano – dall’altra quella del Tplf, aiutata anche dai megafoni di altri gruppi locali con cui ha stretto alleanza.

La situazione è aggiornata in modo giornalistico (difficile aggiungere “indipendente”) da Al Jazeera, unica troupe che è riuscita a entrare a Chifra, una città strategica situata tra Etiopia e Gibuti (sbocco sul mare) che i governativi potrebbero aver ripreso. I giornalisti confermano solo in parte i comunicati vittoriosi dell’esecutivo. Ahmed è su quel fronte da una settimana ed è possibile che le comunicazioni positive e ottimistiche siano anche legate al celebrare con un successo la discesa in campo del premier.

La guerra nel Tigray è paradigmatica della situazione africana anche per la facilità di espansione: mentre nei mesi passati le forze eritree erano state coinvolte nel conflitto, ora pare che tocchi al Sudan – un paese che sta vivendo già una serie di instabilità interne apparentemente riequilibrate, per altro in modo precario, dopo il golpe di un mese fa. Al confine sudanese ci sarebbero stati dei morti tra le forze di Khartum: Addis Abeba nega ogni genere di responsabilità e le addossa al Tplf, che avrebbe attaccato in una zona contesa, la piana di al Fashaqa (un’area fertile molto ambita da entrambi i Paesi).

Il governo etiope dice che i tigrini si starebbero addestrando in Sudan: mentre alcuni ribelli stavano entrando in Etiopia ci sarebbe stato uno scontro a fuoco e i soldati sudanesi sarebbero rimasti uccisi. Addis Abeba parla di “sostenitori stranieri” e ventila l’ipotesi che il Tplf stia ricevendo assistenza per rovesciare il governo. Ma è il governo stesso ad avere supporto dall’esterno: per esempio, negli ultimi giorni si parla di nuovo dell’arrivo di droni dall’Iran.

Si tratta di modelli efficienti che potrebbero avere un peso negli scontri: le relazioni tra Ahmed e Teheran procedono bene, l’ex presidente Hassan Rouhani le aveva benedette a maggio: era poco prima di perdere le elezioni, ma si tratta di collegamenti di carattere strategico che procedono anche sotto la nuova presidenza. Tanto più: i conservatori che guidano la Repubblica islamica vedono come un’opportunità la crisi etiope e il sostegno ad Ahmed, a maggior ragione adesso che il premier è entrato in contrasto con Washington dato che non vuole accettare forme di de-escalation.

Un’altra delle dimensioni paradigmatiche della crisi riguarda la sua evoluzione: in molti stanno parlando di potenziale “effetto Yugoslavia”, una balcanizzazione ipotizzata da Teferi Mergo e Kebene Kejela su Foreign Policy. Dei 117 milioni di abitanti praticamente tutti sono coinvolti dalla guerra – gli effetti pesano sulla disponibilità di materie prime, anche alimentari – e questa condizione potrebbe abbattersi sul sistema federale disarticolandolo.

Questo non affosserebbe solo il progetto ambizioso del premier – far diventare l’Etiopia una potenza africana centralizzandone la struttura – ma creerebbe un’ulteriore dimensione di insicurezza nella regione sensibilissima del Corno d’Africa.

Il rischio di balcanizzazione si lega al contesto etnico che riguarda la federazione etiope, dove vivono oromo, amhara, afar, somali e gli stessi tigrini: etnie, tra le circa 90 presenti nel Paese, che con le riforme etno-federaliste sono state chiuse in ristretti confini geografici, attivando una feroce competizione (etnica) per il potere. Ogni regione è ormai un potenziale focolaio di rivolte e conflitti. In ognuna delle ripartizioni etiopi – che si muovono in modo quasi disconnesso da Addis Abeba – vivono minoranze etniche viste come un pericolo per il potere e si sono create guerre tribali, violenze, pulizie etniche, caos.

“Quando i cittadini di un paese si definiscono in base alla propria appartenenza a un gruppo etnico è lecito temere il peggio”, ha scritto Pierre Haski su Internazionale. Il governo ha sempre cercato di tenere sotto traccia queste condizioni per non indebolire la propria immagine internazionale; compreso adesso, con migliaia di persone che vengono arrestate in varie aree del paese sotto l’accusa di aiutare il Tplf solo perché di etnia tigrina.

E per altro quei gruppi etnici sono presenti anche in altri stati come Gibuti, Eritrea e Somalia. C’è la possibilità che la guerra estesa sia leva per esacerbare certe divisioni, e allo stesso tempo che si possano creare effetti di carattere regionale. Anche per questa ragione gli Stati Uniti e l’Unione europea stanno pressando Addis Abeba nell’avviare un processo di de-conflicting e dialogo. L’Eritrea ha combattuto i tigrini, Gibuti sostiene l’operazione militare governativa, poi ci sono i già citati scontri al confine sudanese e le presenze attive dall’esterno di Paesi come l’Iran o gli Emirati Arabi Uniti (che hanno anche loro fornito droni d’attacco ad Addis Abeba) e come la Turchia e l’Egitto.

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