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Ecco perché serve una “China unit” a Palazzo Chigi

Serve una visione di insieme ai tanti decisori pubblici e privati che si occupano dei rapporti con Pechino. Anche per vigilare sul Pnrr. Gli spunti dell’evento Iai e la riflessione di Marco Mayer

I ricercatori dell’Istituto affari internazionali in collaborazione con il centro di ricerca Merics di Berlino (oggetto di sanzioni da parte della Repubblica popolare cinese insieme a numerosi europarlamentari) dopo due anni di ricerche approfondite hanno acceso i riflettori sulla presenza cinese in Italia.

Spero vivamente che il governo accolga la proposta dello Iai di creare una unità tecnica trasversale presso Palazzo Chigi o la Farnesina capace di dare una visione di insieme ai tanti decisori pubblici e privati che si occupano del Dragone. Da anni soprattutto a livello governativo  accade  spesso che la mano destra non sappia cosa fa la mano sinistra nelle relazioni con Pechino. Su questo piano, dopo gli entusiasmi del governo giallo verde, la politica e i partiti sono apparsi negli ultimi anni silenziosi e reticenti.

All’evento Iai si è discusso ampiamente di transizione digitale ed ecologica. A questo proposito una domanda dal pubblico merita di essere citata in premessa: le imprese cinesi (direttamente o indirettamente) riceveranno o meno finanziamenti nella grande scommessa per l’Italia che è il Pnrr? E qualora dovesse accadere, i miliardi europei a che cosa serviranno?

Questa domanda si inquadra in uno dei tre temi principali trattati nel corso del webinar. Mi riferisco ai rischi connessi al trasferimento tecnologico dall’Italia alla Cina e più in generale ai contenuti (spesso controversi) della cooperazione accademico e scientifica sino-italiana che si estende sino alla più sperduta università del nostro Paese.

Sappiamo bene che nel cyber i maggiori rischi tecnologici sono relativi allo spettro, davvero molto ampio, del dual use. Esso, come dimostrato da oltre dieci anni di studi effettuati negli Stati Uniti e in Israele, comprende numerosi segmenti in cui si articola l’universo digitale e delle telecomunicazioni. Basti pensare ad aerospazio, energia, risorse idriche, sicurezza marittima e portuale, fintech o high tech per la sanità.

Negli ultimi cinque anni (2017-2021) la penetrazione cinese nel mercato italiano della telefonia mobile (5G in particolare) e della banda larga si è progressivamente ampliata a livello di gestori, di servizi (anche legali), piattaforme e forniture. Sono pertanto urgenti contro misure preventive ed è auspicabile un’attenzione parlamentare sulle fasi di attuazione operativa del Pnrr, a partire dal Copasir.

L’esperienza dimostra che non si può aprire a tutti. La matrice geopolitica è uno dei fattori di rischio che la sicurezza nazionale ed europea non possono eludere. È inutile intervenire a valle quando i buoi sono scappati. In questa cornice i decisori politici devono accendere i riflettori su due aspetti tecnici: la formulazione dei bandi per l’assegnazione delle gare dei finanziamenti del Pnrr; il monitoraggio delle transazioni societarie, dei passaggi di proprietà e dei flussi finanziari. Il caso Alpi Aviation potrebbe essere un anello della catena.

Il “rischio Cina” nel Pnrr è stato sottolineato nel giugno scorso dal segretario di Stato americano Antony Blinken nel suo incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi. Tuttavia, pochi mesi dopo, Liu Kan, il nuovo console cinese a Milano, p tornato alla carica rivendicando l’utilità della presenza delle imprese cinesi negli investimenti italiani Pnrr. Il diplomatico di Pechino ha anche auspicato “che i media cinesi e italiani rafforzino la cooperazione contribuendo a consolidare il rapporto di amicizia”. Proprio la stretta cooperazione tra media italiani e cinesi rappresenta il secondo tema centrale affrontato dallo Iai. Pur non fornendo le cifre (suppongo consistenti) gli studiosi hanno messo in evidenza il forte impatto della Via della Seta  sull’editoria, sui social media e sul giornalismo in Italia.

Uno degli accordi più noti e pubblicizzati è quello con Class Editori. La ricerca dello Iai, invece, si focalizza su due casi opachi che reclamano trasparenza. Mi riferisco ai rapporti con la Cina dell’Ansa  e della Rai. Stando a quanto affermato dai ricercatori, l’Ansa si sarebbe impegnata a riportare integralmente  in italiano i  contenuti della agenzia cinese. Se così fosse, si tratterebbe un accordo umiliante per i redattori a cui sarebbe precluso di effettuare il fact checking sulle notizie. È vero che nei suoi articoli l’Ansa riporta (piccola piccola) la sigla Xinhua. Tuttavia, è altrettanto evidente che la grande maggioranza dei lettori non ci fanno caso e attribuiscono i contenuti all’Ansa.

I rapporti tra Cina e Rai meritano una trattazione separata, tra i tanti aspetti discutibili cito un caso minore: il figlio dell’ex corrispondente da Pechino lavora nella più importante azienda cinese di Stato per le telecomunicazioni. Intendiamoci, non c’è niente di illecito, ma sul piano deontologico non è il massimo. Solo un esempio tra i mille elementi “spiacevoli” che caratterizzano le relazioni tra Roma e Pechino.

L’ultimo capitolo affrontato dallo Iai riguarda la cooperazione finanziaria, con particolare riferimento a UniCredit e Intesa Sanpaolo. Degna di nota è la presenza dell’amministratore delegato della cinese WindTre, Jeffrey Hedberg, nel consiglio di amministrazione di Unicredit. Oppure, per citare un caso emblematico dei rischi di interdipendenza geopolitica finanziaria, il report molto dettagliato di Mauro Giorgio, economista di Unicredit a Vienna, che mette in evidenza il pericolo che i governi dei Balcani occidentali si facciano “intrappolare” dai prestiti cinesi per la realizzazione di infrastrutture.

Per quanto riguarda Intesa Sanpaolo segnalo alcune iniziative recenti: le offerte di investimenti della società di asset management del gruppo Eurizon dedicate al mercato cinese nonché l’accordo con Industrial and Commercial Bank of China, nell’ambito della cornice istituzionale della Fondazione Italia-Cina, a sostegno dello sviluppo delle piccole e medie imprese italiane e cinesi.

A proposito della Fondazione, il suo vicepresidente esecutivo, Riccardo Monti, all’evento China Watcher 2021 ha forse esagerato in ottimismo sulle grandi opportunità che si aprono per le imprese italiane nel mercato cinese. Ma certo, alcuni spazi esistono nei settori della sanità, delle energie rinnovabili, dall’agroalimentare e nel manifatturiero.

La grande questione irrisolta resta quella degli investimenti europei in Cina perché continua a non esserci un level playing field. L’accordo sul Cai è congelato, il vertice Ue-Cina è rinviato. La presidenza francese del Consiglio dell’Unione europea si sviluppa nella sua prima fase sotto elezioni per l’Eliseo ed è improbabile che Emmanuel Macron lavori per una mediazione accettabile. La critica a Draghi per i tamponi alle frontiere, le prese di distanza dalla Cina e dagli Stati Uniti in nome della sovranità francese e dell’autonomia strategica europea saranno inevitabilmente i suoi cavalli di battaglia.

L’augurio è che l’evento Iai rappresenti finalmente per l’Italia l’inizio di un confronto politico serio sulla Cina. Dal 2009, con i governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte, gli esecutivi italiani hanno sperato di trovare una sponda a Pechino. I risultati sono stati deludenti. La barriera è politica perché offrire reciprocità alle imprese straniere porta inevitabilmente a ridurre il potere del Partito comunista cinese. Forse Draghi riuscirà ad essere più incisivo con il Dragone. Chissà? Come durante la guerra fredda la competizione strategica e il contenimento delle minacce cinesi devono muoversi all’interno di una coesistenza pacifica che consenta una cooperazione multilaterale su clima, sanità e possibilmente finanza. Non è facile, ma necessario.



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