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L’ombra cinese sullo scontro Biden-Putin. Analisi di Quintavalle

Uno scontro ad alta tensione, destinato a rimanere tale. Per Joe Biden la Russia è un grosso problema, ma non una minaccia esistenziale come la Cina: i numeri parlano. E le aspirazioni dell’Ucraina sulla Nato sono difficili da ricevere. L’analisi di Dario Quintavalle

La convocazione del grande summit per la democrazia, il 9 e 10 dicembre risponde a uno dei principali punti programmatici della politica estera di Biden, il ritorno al multilateralismo e la promozione dei valori democratici nel mondo.

L’agenda sembra quella classica dei liberal: sostenere i media liberi e indipendenti, combattere la corruzione, sostenere i riformatori democratici, sviluppare la tecnologia per la democrazia, difendere le elezioni libere e i processi politici democratici. Insieme ai Paesi liberi, sono stati invitati altri che lo sono solo parzialmente – secondo Freedom House – come l’Ucraina, a titolo di incoraggiamento.

Grandi esclusi sono la Russia e la Cina. In ragione di ciò, c’è da chiedersi se agli occhi della amministrazione americana i due Paesi siano sullo stesso piano. Non è così. Nell’agenda statunitense, la Cina, e soprattutto il micidiale mix tra potere economico e assenza di libertà democratiche che rappresenta, è in cima nella scala delle preoccupazioni.

Già durante la prima conferenza stampa tenuta da presidente, Biden aveva definito quella con la Cina come “la battaglia tra l’utilità delle democrazie nel Ventunesimo secolo e le autocrazie”.

Durante la Guerra Fredda il confronto tra Liberaldemocrazia capitalista e Comunismo, tra Est ed Ovest, Usa e Urss, verteva su quale sistema fosse meglio in grado di assicurare il benessere delle masse. L’Urss perse con la sua ossessione per l’industria pesante, la pianificazione centralizzata, l’imperialismo, il militarismo, l’elefantiasi burocratica.

Al contrario, la Cina, grande fabbrica del mondo di prodotti a basso costo, è riuscita a creare benessere per i suoi abitanti (da soli il 18% della popolazione mondiale) sotto un regime comunista. Il sottinteso è che la democrazia non è necessaria per la creazione di prosperità, anzi può essere persino un ostacolo. Ma sia chiaro: è l’Occidente che glielo ha permesso, secondo la profezia di Lenin che “I capitalisti ci venderanno la corda con cui impiccarli”. Ora è venuto il tempo di smettere di vendere corde.

Nei venti anni in cui l’Occidente è stato distratto dalle endless wars (guerre senza fine, ma sarebbe meglio dire useless, inutili) in Medio Oriente, la Cina è stata ammessa al Wto, nel falso presupposto che la libertà di commercio ne avrebbe facilitato un’evoluzione democratica. È stato esattamente il contrario. Oggi il Pil cinese è passato da 1000 a 15000 miliardi di dollari, ma il paese è più aggressivo e antidemocratico che mai.

L’abuso di posizione dominante, le scorrette pratiche commerciali, lo sfruttamento neocoloniale delle risorse dell’Africa, hanno provocato la perdita di milioni di posti di lavoro in Occidente, Italia compresa. Finora la Cina ha pensato alla pancia del popolo, e tra burro e cannoni ha scelto il burro. Oggi spende sempre più in capacità militari e dopo aver soppresso la libertà di Hong Kong ha preso di mira Taiwan.

Soprattutto il Covid, il virus diffuso, per dolo o colpa, dalla città di Wuhan, e che oggi infesta il pianeta, è ciò che Chernobyl fu per l’Unione Sovietica: la rivelazione che tecnologie complesse, in mano a sistemi autoritari che non incoraggiano la responsabilità individuale e la trasparenza, possono facilmente uscire fuori controllo ed avere ripercussioni negative per tutto il mondo.

È su questo sfondo che deve essere visto il recente incontro virtuale tra Biden e Putin. Questo serviva a sgonfiare i venti di guerra che soffiano da novembre sulla linea di demarcazione tra Ucraina e Russia.

C’è evidentemente chi ha interesse a drammatizzare la relazione tra i due paesi che è invece drammaticamente in stallo da sette anni a questa parte: intanto lo stesso governo ucraino. Il presidente Zelenski aveva annunciato un possibile golpe che avrebbe dovuto aver luogo una settimana fa, e che non si è visto; e poi probabilmente alcune agenzie e settori dell’establishment militare americano che non gradiscono il nuovo corso. Gli Usa dopotutto non sono un monolite sotto lo stretto controllo del Presidente (che deve ancora completare tutte le nomine), e può anche darsi che la pessima organizzazione del ritiro afghano sia stata voluta apposta per metterlo in imbarazzo.

Ritenevamo già che lo scenario di una invasione totale o parziale dell’Ucraina fosse implausibile, cosa confermata di recente a Formiche.net da Sergei Karaganov. L’ipotesi, nonostante tutto, ha tenuto banco sui media per tutto un mese. Questo non vuol dire che non possano avverarsi altri scenari.

Ucraina e Russia, si badi, non sono, e non sono mai stati tecnicamente in guerra: hanno regolari relazioni diplomatiche e persino commerciali. Dunque il chiarimento era sulle linee rosse da non superare.

Ufficialmente l’agenda del meeting era la richiesta russa di assicurazioni per la sua sicurezza, e in particolare la garanzia, per iscritto, che l’Ucraina non entrerà mai nella Nato.

La risposta scontata è che l’Ucraina ha tutto il diritto di chiedere di entrare nella Nato: ma ciò non vuol dire che la richiesta verrebbe automaticamente accolta. L’ipotesi non si è avverata neppure quando i tempi erano più favorevoli; ora non si può a norma di statuto, perché l’Ucraina ha un contenzioso territoriale con un vicino (la Russia stessa), di cui nessun alleato Nato vuol farsi carico. Era già difficile morire per Danzica 80 anni fa, ma, seriamente, chi vuole morire per Donetsk oggi?

Certo, l’Ucraina può essere un socio esterno (come fu la Svezia ai tempi della Guerra Fredda): spende in difesa il 4% del suo PIL, cioè il doppio di quanto è richiesto a un membro della Nato. Ma è pur sempre il Pil ucraino, il più basso d’Europa. Non c’è bisogno di invadere un paese che si sta dissanguando da solo. Può ospitare truppe straniere a titolo provocatorio, ma non ha alcuna sicurezza che combatterebbero per essa, non facendo parte di alcuna alleanza militare. In caso di guerra l’Ucraina resta sola, come è sempre stata dal 2014.

L’agenda ufficiosa dell’incontro può invece essere riassunta nel motto “parlare a nuora perché suocera intenda”. Biden aveva di mira essenzialmente il Nord Stream 2, il gasdotto che unisce direttamente sul fondo del Mar Baltico Russia e Germania. Completato, deve avere la licenza di esercizio. Ormai esso è un fatto compiuto, ed infatti si è rinunciato a imporre sanzioni; ma il messaggio diretto alla Germania, assai più che alla Russia, è che esso non deve entrare in funzione prima della fine dell’inverno, in modo che l’Ucraina non resti al freddo e non perda le royalties per il passaggio del gas russo sul suo territorio.

Quanto a Putin, già nell’avere un altro colloquio con Biden ottiene un riconoscimento importante. La suocera, per lui, era la Turchia, il fratello-coltello che sta alimentando le ambizioni militari di Kiev con massicce vendite di armi e tecnologia sofisticata. Tecnicamente la Turchia è membro della Nato, in realtà agisce in proprio. Nonostante la recente entente Putin-Erdogan, Turchia e Russia sono nemiche storiche, e l’occupazione della Crimea è una minaccia diretta ad Ankara perché consente alla Russia di proiettare il proprio potere marittimo dalla cruciale base navale di Sebastopoli. La Crimea sta al Mar Nero come Gibilterra sta al Mediterraneo.

C’è dunque uno scenario assai più realistico e pericoloso: che qualcuno a Kiev faccia colpi di testa, e pensi di ripetere le gesta di Saakashvili, il quale nel 2008 tentò di ritornare alla Georgia Abkhazia e Ossezia del Sud con la forza, contando su un appoggio della Nato che non arrivò mai. In tal caso la Russia interverrebbe a difesa delle repubbliche del Donbass, ciò che scatenerebbe durissime sanzioni Usa come l’espulsione dal sistema SWIFT dei pagamenti internazionali.

Non si può contare fino in fondo sulla razionalità di un attore, l’Ucraina, che è ancora fortemente polarizzato sulla sua identità, collocazione internazionale e sugli interessi da difendere, condizionato pesantemente da elementi nazionalisti, e coltiva ambizioni, quali l’adesione a Nato e Ue che non sembrano realistiche. Quindi la questione va gestita responsabilmente a un livello più alto, e l’intervento diretto degli Usa, visto il fallimento del formato Normandia, alla Russia probabilmente non dispiace.

Biden, come spiegavamo a gennaio ha una lunga esperienza di politica estera, e quindi non commette il comune errore di identificare la Russia con Putin; si rende perfettamente conto delle preoccupazioni russe e della loro legittimità; nega il diritto russo a una sua “zona di influenza”, ma sa che in politica internazionale non esistono i ‘diritti’, solo gli interessi. E, se gli americani non volevano i missili Urss a Cuba, bisogna pur riconoscere che non è irragionevole per i russi non volere la Nato a 500km da Mosca.

Non è Nixon, e non spera di giocare Mosca contro Pechino. Nemmeno vuole, però, che i due paesi si avvicinino ancora di più. È capace di vedere le differenze tra loro.

La Cina è una minaccia esistenziale al predominio degli Stati Uniti nel mondo e all’ordine liberaldemocratico che è stato per due secoli la base del capitalismo: un gigante demografico, manifatturiero, commerciale, dominato da una dittatura del Partito Comunista e sempre di più del suo leader Xi Jin Ping.

La Russia non è nulla di tutto ciò. Ha un Pil comparabile a quello spagnolo, e tuttavia spende in armamenti una fortuna per mantenere una consistente forza militare. Ma l’Urss aveva piani di invasione dell’intera Europa, e questo ne giustificava il contenimento, mentre la Russia mira soprattutto a difendere un enorme territorio sottopopolato (poco più del doppio degli abitanti dell’Italia) e le sue risorse dagli appetiti dei vicini.

Pur se semina caos ai suoi confini, come faceva l’Impero Bizantino per difendersi, la Russia è anche una garanzia di stabilità al suo interno: che succederebbe se il mosaico di territori e di etnie che è la Federazione Russa si disfacesse? Fatta eccezione per le Repubbliche Baltiche, la disintegrazione dell’Unione Sovietica – che è l’incubo quotidiano di Putin – non ha certo portato stabilità, democrazia e prosperità, bensì satrapie personali e conflitti interetnici.

Putin è diventato sempre più autoritario negli anni, ma per un certo tempo si è dedicato alla costruzione di un simulacro di democrazia e di Stato di diritto. Dopo di lui, la Russia potrà ancora evolversi democraticamente, sia pure con lentezza.

Quindi Biden non ha interesse a premere l’acceleratore con la Russia, che è ancora recuperabile. Pur se non lo ama e non ne subisce il fascino, giudica Putin un leader pragmatico, razionale, che esprime con chiarezza i suoi obiettivi di politica estera e con il quale si può trattare, ovviamente da una posizione di superiorità.

Per cui l’America «continuerà la fornitura di assistenza difensiva all’Ucraina» come ha dichiarato il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, ma niente più di questo. Subito dopo il summit, Biden ha consultato i leaders del formato Quint, compreso l’italiano Draghi. Non è affatto un disimpegno, ma l’invito agli europei ad assumersi più responsabilità, e a gestire meglio la sicurezza del proprio continente. Che fatalmente include la sicurezza della Russia.

Dopotutto la rivolta del 2014 nota come Euromaidan a Kiev, aveva come oggetto la firma dell’Accordo di Associazione con la Ue. Era la Ue che si stava allargando, non la Nato. Sette anni dopo, in Ucraina la corruzione è sempre all’ordine del giorno e il paese è scivolato in classifica sotto la Moldavia, diventando il più povero d’Europa. Segno che non è stato un buon affare per nessuno.


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