Crisi della globalizzazione “just in time” e della supply chain, costo del lavoro e delle materie prime, carenza di semiconduttori, inflazione, tensioni geopolitiche intorno a Taiwan e all’Artico, mire cinesi sui porti italiani e greci, strategia zero-Covid. Tutte le questioni chiave dell’ultimo anno hanno a che fare col bestione incagliato nel canale di Suez. E ce le porteremo anche nel 2022
La gigantesca nave Ever Given, che a marzo rimase incastrata per una settimana nel canale di Suez terrorizzando il commercio internazionale e innescando un contenzioso miliardario, è passata di nuovo attraverso lo stretto lo scorso 12 dicembre, stavolta senza problemi e piena quasi fino alla massima capacità (che è di 20mila container). La società taiwanese di trasporto marittimo che l’aveva presa in affitto, Evergreen, ha registrato quasi sei miliardi di dollari di utili nei primi 9 mesi dell’anno, un balzo del 1.300% sul 2020, tanto da aver distribuito bonus a molti dei suoi dipendenti, nell’ordine delle 42 mensilità ciascuno.
Acqua (e sabbia) passata? Per il resto del mondo, no. Il bestione incagliato è un simbolo perfetto dell’anno appena trascorso e di quello che ci aspetta. La crisi della globalizzazione e del modello just in time, la paralisi delle supply chain, l’aumento del costo del lavoro e delle materie prime, la carenza di semiconduttori, l’inflazione. Che a loro volta hanno conseguenze sull’economia, la politica interna e internazionale, la difesa e la cybersicurezza.
Il 90% dei beni, a un certo punto, viaggia via mare, come si legge in “Arriving today” di Christopher Mims, che racconta lo choc della domanda e il sofisticatissimo quanto imperfetto sistema del commercio internazionale. E ci permette di capire perché in Italia i concessionari siano costretti a vendere auto senza radio (mancano i chip); perché Amazon abbia raddoppiato la sua capitalizzazione di borsa da 1.800 a 3.600 miliardi di dollari con l’arrivo del Covid-19 (ha il più avanzato modello di logistica mai congegnato); perché l’Occidente si sia praticamente dimenticato di Hong Kong ma abbia gli occhi e i cannoni puntati su Taiwan, l’isola che oltre alla citata Evergreen ospita la più grande industria di semiconduttori; perché sia molto difficile trovare marinai per le grandi navi cargo: nel 2020, 400mila di questi lavoratori che spesso sfiorano lo schiavismo sono rimasti intrappolati a bordo per mesi e senza contratto perché le regole sanitarie non permettevano di farli sbarcare o farli tornare nei loro Paesi d’origine.
La fragilità di Suez si lega allo sviluppo in chiave alternativa della rotta artica, che a sua volta dipende dal cambiamento climatico e dalla strategia della Russia, che sta mettendo in piedi una flotta per dominare quel tratto di mare. Lo sbocco nel Mediterraneo del canale vecchio 152 anni è il motivo per cui la Cina cerca di prendere il controllo dei porti greci e italiani. E dalla strategia intermodale (porti+treni+gomma) dipende il futuro del nostro Paese, che potrebbe rivaleggiare con i ben più attrezzati e moderni scali del nord (Rotterdam e Amburgo tra tutti) visto che la posizione dell’Italia permette di risparmiare vari giorni nel viaggio delle merci.
E ancora, la politica zero-Covid che la Cina continua ad adottare in barba alla variante Omicron vuol dire che da due anni porti, fabbriche, distretti industriali e città vengono chiusi da un giorno all’altro, per settimane, creando un altro collo di bottiglia nella già acciaccata catena delle forniture globali. Per ognuno di questi giorni, c’è un imprenditore o una multinazionale che decide il reshoring di una parte o di tutta la sua filiera, o ne sposta un pezzo in Vietnam, Cambogia, Singapore, Emirati Arabi Uniti, che sono meno autoritari e più foreign business-friendly pur offrendo infrastrutture moderne e ben posizionate nel percorso delle portacontainer. Non è un caso se la Cina a un certo punto abbia disattivato il sistema di tracciamento delle navi, molte delle quali ammassate davanti alle sue coste perché un solo caso positivo è in grado di paralizzare un terminal logistico fondamentale. Davvero una pessima pubblicità per la fabbrica del mondo.
Infine, l’inflazione. Le economie globali sono rimbalzate dalla fase più acuta della crisi pandemica, ma il tappeto non era così elastico: giusto per fare un esempio, più lavoro da remoto vuol dire più consegne a domicilio, più commercio online, più scambi internazionali. E nei Paesi in cui l’ultimo miglio (o gli ultimi 100) delle merci dipendono dagli autotrasportatori, il costo dei carburanti che schizza fuori controllo ha un impatto immediato sui prezzi pagati dai consumatori. Con le bollette che crescono del 50%, i lavoratori chiedono salari più alti, i datori non trovano personale, e si mette ancora più legna nel braciere dell’inflazione che rischia di bruciare la crescita – per fortuna pure un po’ di debito pubblico.
Se l’Ever Given ha ripreso a viaggiare serenamente, lo stesso non si può dire per le questioni aperte nel 2021. Ce le porteremo dietro per tutto il 2022, come il Covid.