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La Cina suona la ritirata in Africa e chiude i rubinetti dei prestiti

Dopo anni di prestiti muscolari che hanno devastato intere economie e indebitato i governi degli Stati africani, le banche del Dragone cominciano la ritirata e concentrano il flusso dei finanziamenti-trappola solo su alcuni Paesi. Intanto in casa si corre ai ripari per evitare l’effetto domino sul mattone

La si potrebbe chiamare ritirata strategica, giusto per non usare il termine, decisamente più negativo, disfatta. La Cina fa fagotto e lascia a secco una parte dell’Africa, dopo aver inondato il continente di prestiti-trappola, dalle clausole oscure. Una questione di cui Formiche.net si occupata più volte, svelando la vera natura dei finanziamenti delle banche cinesi alle economie in via di sviluppo. L’ultimo caso, forse il più emblematico, è quello dell’Uganda il cui aeroporto internazionale di Entebbe, l’unico del Paese, è finito espropriato dalle banche cinesi a causa del mancato rimborso di un prestito alla Exim Bank.

Ora però, qualcosa sembra essere cambiato nello scacchiere africano di Pechino. A dire il vero, nell’orbita dei cosiddetti prestiti muscolari cinesi non è finita solo l’Africa, ma anche Paesi come il Pakistan, lo Sri Lanka (proprio pochi giorni fa il governo del Paese ha chiesto alla Cina la ristrutturazione del debito), il Laos e persino la Nuova Zelanda.

Un passato che forse non tornerà, dal momento che le banche cinesi avrebbero deciso di concentrare le loro attenzioni esclusivamente su alcuni Paesi, definiti strategici o ricchi di risorse tra cui Angola, Gibuti, Etiopia, Kenya e Zambia, lasciando il restante campo. Una ritirata che a dire il vero sarebbe cominciata già da qualche tempo, ma di cui se ne ha notizia solo adesso. Come rivelato dal Financial Times i prestiti hanno raggiunto il loro picco massimo nel 2016, con uno stock di quasi 30 miliardi, per poi scendere nel 2019 a 7,6 miliardi di dollari.

Il fatto è che dopo essersi tuffati a capofitto nel Continente per impadronirsi di industrie, infrastrutture, asset, gli istituti di credito cinesi sono diventati più cauti. Motivo? Molti Paesi hanno raggiunto il limite della loro capacità di indebitamento, con la seria prospettiva di un default. E non hanno sufficienti asset da ipotecare o cedere a titolo di risarcimento. E per le banche del Dragone non c’è più nulla da chiedere o pretendere. La campagna cinese in Africa a suon di prestiti opachi ha dunque avuto come unico risultato quello di mettere in ginocchio molte economie e spingere Pechino a togliere le tende.

Il tutto accade mentre dietro le mura di casa propria, la Cina prova a evitare in extremis un effetto domino nel disastrato comparto immobiliare, che vale il 25% del Pil cinese. Dopo l’esplosione dell’ennesimo bubbone, quello di Shimao, il governo ha deciso di rendere più facili le fusioni pilotate tra colossi, intervenendo in caso di quasi-default. In particolare, qualora un grande gruppo dovesse andare in soccorso di un altro, la spesa sostenuta per l’acquisizione non verrà conteggiata nel debito, lasciando dunque il livello di indebitamento dell’azienda sana invariato. Funzionerà?

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