Più che una guerra ampia, tra Mosca e Kiev è in corso una battaglia di nervi. Sta al leader Zelensky trovare una via d’uscita. Che c’è. Il commento di Dario Quintavalle
“Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io”. Questo potrebbe essere il motto dell’Ucraina di oggi e del suo presidente. Volodymyr Zelensky ha passato tutto lo scorso anno a sollecitare udienza dal presidente Joe Biden e il supporto dell’amministrazione statunitense. Adesso che lo ha ottenuto, e con un entusiasmo che va ben oltre le più rosee previsioni, sta puntando i piedi e cercando di frenare l’ardore di un alleato sempre più scomodo.
Da tempo, governi e media occidentali denunciano l’accresciuta minaccia russa. Descrivono una invasione dell’Ucraina come imminente, a febbraio, con dovizia di cartine che descrivono l’accerchiamento dei tank russi e le direttrici possibili dell’invasione (dal Donbass, da Charkiv, dal mare verso Odessa). Promettono supporto e aiuti militari, minacciano sanzioni terrificanti alla Russia se ciò dovesse mai accadere, progettano di ritirare il personale dalle ambasciate.
Invece, esponenti ucraini a qualsiasi livello, dal presidente in giù, da almeno un mese, si sforzano di minimizzare. Spiegano ai partner occidentali che non c’è nessuna minaccia in atto, nessun pericolo di guerra; che l’ammassamento di truppe russe non è particolarmente anomalo (e comunque non si trovano oltre la frontiera, ma a circa 200 chilometri, praticamente a metà strada tra l’Ucraina e Mosca); che l’abbandono del personale diplomatico è una esagerazione (“non siamo il Titanic”); e che l’attrito innegabile tra Russia e Ucraina è rimasto agli stessi livelli in cui è da otto anni a questa parte. Martedì Oleksy Danilov, segretario del Consiglio di Sicurezza e Difesa dell’Ucraina ha dichiarato che “non vediamo segnali di un massiccio attacco da parte dei russi”. Ed è solo una delle tante dichiarazioni rassicuranti che arrivano da Kiev.
Il presidente Zelensky dopo una telefonata giovedì sera con Joe Biden, pur negando differenze con l’amministrazione statunitense, ha rilasciato una dichiarazione davvero sorprendente: “Non abbiamo alcuna incomprensione con Joe Biden. Semplicemente io comprendo profondamente ciò che sta accadendo nel mio Paese, come lui comprende ciò che accade nel suo”. Una vera e propria crisi di nervi.
Perché il governo ucraino minimizza sull’invasione? Intanto perché, come è stato ben spiegato da Emanuele Rossi su queste pagine, la continua descrizione dell’Ucraina come prossimo teatro di guerra sta causando una fuga di capitali all’estero; precipitosa emigrazione dei cervelli; e disinvestimenti da parte degli investitori istituzionali stranieri – con la sola significativa eccezione dei cinesi, che ultimamente hanno portato a termine, indisturbati, il takeover della Borsa di Kiev, ultimo di una serie di importanti acquisizioni di asset nel Paese. Visto che oggi siamo in vena di proverbi ne citiamo un altro: “tra i due litiganti il terzo gode”.
Ma il quadro teorico per comprendere gli eventi di questi giorni ce lo fornisce l’ultimo libro di Igor Pellicciari, Reframing Foreign Aid, un innovativo studio sull’aiuto internazionale. Le fondamentali intuizioni dello studioso sono, molto sinteticamente: che il concetto di “aiuto” va allargato dalla tradizionale nozione di aiuto umanitario o allo sviluppo, a qualunque forma di trasferimento tra Stati, ivi compresi gli aiuti militari; che nella relazione di aiuto tra donatore e beneficiario sono spesso prevalenti gli interessi del donatore; e che gli aiuti possono non corrispondere ad alcun reale bisogno del beneficiario, ma essere stabiliti a priori dal donatore.
È esattamente ciò che sta accadendo all’Ucraina, uno dei maggiori percettori di aiuti internazionali, persino superiore ad alcuni Paesi dell’Africa. Dal 2001 al 2021 la sola Usaid, l’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo americana ha speso sull’Ucraina 2,3 miliardi di dollari. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha appena annunciato un pacchetto di aiuti per 1,2 miliardi di euro. Più prestiti del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e altro. Nonostante questo gigantesco sforzo, l’Ucraina oggi gareggia con la Moldavia per il titolo di Paese più povero d’Europa. E questi sono solo gli aiuti civili.
Poi ci sono gli aiuti militari, che però favoriscono a Kiev l’ala nazionalista, convinta che i problemi con la Russia e le repubbliche separatiste del Donbass possano essere risolti con la forza piuttosto che con il dialogo, polarizzando ulteriormente una società ancora molto legata culturalmente alla Russia, e per niente convinta di un radioso futuro nella Nato e nell’Unione europea, che peraltro non è affatto alle porte. C’è un allarmante squilibrio tra la disfunzionalità dello Stato ucraino nella sua amministrazione civile e giudiziaria, e il crescente peso, efficienza e prestigio dell’apparato militare.
Insomma, gli aiuti non aiutano l’Ucraina, e le stanno anche facendo del male.
Come sanno i nostri più affezionati lettori, chi scrive non ha mai davvero creduto alla possibilità di una guerra aperta. Si tratta solo di una guerra di nervi.
In questa drôle de guerre il primo round se lo aggiudica Vladimir Putin Putin e la sua strategia del judoka. Nessuna sua richiesta è stata accolta, ma ha comunque ottenuto che il tema delle garanzie di sicurezza alla Russia come parte del più ampio problema della sicurezza europea venisse messo seriamente in discussione sui tavoli diplomatici. Chiede una nuova Yalta, ma si accontenterebbe di una nuova Helsinki. Ha in questo momento due leve, la minaccia militare e quella energetica, rispetto alle quali gli europei sono disarmati.
Poiché la Nato ha messo in chiaro che non difenderà direttamente l’Ucraina in caso di attacco, ogni minaccia di sanzioni è, se non priva di effetto, di modesto impatto. L’esperienza insegna che le precedenti sanzioni non hanno fatto che rendere più autonomo dall’Occidente l’apparato produttivo russo. Oggi la Russia produce persino il vino: è una ciofeca, d’accordo, ma intanto le nostre esportazioni ne soffrono.
Quanto all’energia, la Russia ha onorato finora i suoi impegni contrattuali, limitandosi a non aggiungere forniture spot. E i rubinetti del gas non sono mai stati chiusi nemmeno ai tempi dell’Unione Sovietica. Un po’ poco per parlare di “ricatto energetico”. Si calcola che,per costruire una completa autonomia energetica dalla Russia (che comunque non escluderebbe una dipendenza da altri Paesi non più rassicuranti, visto che le tecnologie per le energie alternative vengono in gran parte dalla Cina) ci vorrebbero almeno cinque anni.
Ma l’Ucraina non vuole affatto che l’Europa rinunci al gas russo! Vuole solo che esso continui a transitare per il suo Paese, e non dal Nord Stream 2. Quest’ultimo non è stato costruito di nascosto, all’insaputa della Germania, ma con il suo pieno accordo. Completato, la sua piena operatività è frenata solo da cavilli giuridici che manifestano l’imbarazzo del governo tedesco stretto tra due fuochi e oggetto della diffidenza dei Paesi baltici e scandinavi che, tagliati fuori, costruiscono il loro gasdotto, il Baltic Pipe.
La Germania è di sicuro uno dei perdenti di questo round: orfana di Angela Merkel e della sua consuetudine con Putin; prigioniera della sua eterna tentazione di volere la botte piena (la solidarietà europea) e la moglie ubriaca (il rapporto commerciale privilegiato con la Russia); renitente al trasferimento di tecnologia militare letale: mentre dona elmetti e ospedali da campo, gli aerei britannici che portano aiuti militari a Kiev addirittura fanno un lungo giro per evitare il suo spazio aereo. Tanto per la coesione dell’Occidente.
Forse l’Ucraina farebbe un favore a sé stessa e a tutti, annullando le previsioni costituzionali del 2019 che indicano come suo obiettivo l’adesione alla Nato e all’Unione europea, tornando al precedente status, dichiarando la propria assoluta neutralità.
Toglierebbe così d’imbarazzo l’Occidente, che le apre la porta in via di principio, ma poi gliela chiude in faccia in via di fatto. E priverebbe di un pretesto la Russia di Putin. Basta aiuti interessati: “chi fa da sé, fa per tre”. Eh, la saggezza dei proverbi…