Secondo Standard&Poor’s a gennaio è crollata la liquidità raccolta dalle banche dell’area asiatica e pacifica attraverso obbligazioni emesse sul mercato. Il motivo? Gli istituti del Dragone si stanno dissanguando tra bolla immobiliare e prestiti mai rimborsati. E ora non possono più sottoscrivere bond
Qualcuno, in Cina, ha finito la benzina. E il corto circuito è servito. Le grandi banche cinesi cominciano a scontare i primi effetti di due anni di progressivo dissanguamento, imputabile a due fattori piuttosto precisi e circoscritti. Da un lato la crisi finanziaria delle economie in via di sviluppo, africane in testa, destinatarie di enormi finanziamenti, dalla dubbia natura, da parte degli istituti del Dragone. Chi ha ricevuto i prestiti non è più riuscito a rimborsarli e questo ha fatto scattare le clausole capestro che hanno consentito a Pechino di mettere le mani sulle infrastrutture dei Paesi finiti nella rete cinese. Ma ha anche lasciato a bocca asciutta le stesse banche.
Poi ci sono le questioni interne, ovvero il mercato immobiliare esploso a suon di insolvenze che hanno lasciato decine di migliaia di risparmiatori con il cerino in mano. Per anni miliardi di finanziamenti sono piovuti per consentire uno sviluppo immobiliare che però non ha incontrato la domanda sperata. E così sono state costruite centinaia di migliaia di case, intere città di provincia, senza che nessuno vi andasse ad abitare. E i soldi partiti, non sono mai tornati.
Adesso i nodi stanno piano piano venendo al pettine, con le banche della Repubblica Popolare che hanno cominciato a non comprare più i titoli di debito emessi dagli altri istituti dell’area pacifica. Un istituto o una società, per finanziarsi e raccogliere della liquidità è spesso costretta a emettere delle obbligazioni, le quali possono essere sottoscritte da chi quella liquidità può e vuole prestarla. Questo non sta più accadendo, almeno sulla sponda cinese, a causa delle difficoltà delle banche legate a Pechino. Lo prova un dato incastonato in un recente report di Standard&Poor’s, in cui si afferma che per il momento per le banche cinesi è meglio stare alla larga dalle colleghe asiatiche.
“Le nuove emissioni di debito delle banche dell’Asia-Pacifico sono calate bruscamente nel mese di gennaio, poiché i prestatori cinesi sono rimasti in disparte a causa dei crescenti problemi di liquidità e di finanziamento del settore immobiliare”, spiega l’agenzia di rating americana, che lo scorso dicembre ha declassato a livello default il debito di Evergrande, il colosso del mattone simbolo della grande crisi cinese.
“Le banche della regione asiatica-pacifica hanno raccolto nel primo mese dell’anno un totale di 3,57 miliardi di dollari da obbligazioni emesse, in calo rispetto ai 14,36 miliardi di dollari del dicembre 2021 e ai 23,15 miliardi di dollari del gennaio dello scorso anno”. In altre parole, il crollo della liquidità raccolta denota l’arrestarsi della domanda da parte degli istituti cinesi, che per tradizione sostengono l’intero sistema del credito asiatico, sottoscrivendo enormi quantità di debito emesso.
Tutto questo mentre le autorità finanziarie del Dragone hanno rinnovato il loro controllo sull’impero finanziario del miliardario Jack Ma. Secondo quanto riportato da Bloomberg, infatti, la Cina avrebbe chiesto alle più grandi aziende e banche statali di avviare un nuovo giro di controlli sulla loro esposizione finanziaria e i loro collegamenti con Ant Group. La società di proprietà di Ma e precedentemente nota come Ant Financial e Alipay, è la controllata per i pagamenti e braccio finanziario del gigante cinese dell’e-commerce Alibaba.