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Perché bisogna ancora parlare di terrorismo. Il libro di Casini e Manciulli

Venti anni di guerra al terrore, e adesso? Il rischio che il conflitto ucraino crei un contesto caotico che facilita l’apertura di fronti multipli anche connessi alle organizzazioni terroristiche delineato durante la presentazione del libro di Casini e Manciulli

Dopo gli attacchi del 9/11 si è aperto un ciclo nuovo, l’inizio della guerra al terrore, che ha comportato una serie di cambiamenti nelle relazioni internazionali e nella geopolitica, a cascata nei rapporti economici e nelle dinamiche commerciali e in ultimo, ciò che più è percepito, nella vita quotidiana. Ora, con l’invasione russa dell’Ucraina si sta aprendo un’ulteriore fase. E non è detto, come spiegato su queste colonne da Stefano Dambruoso e Francesco Conti che il conflitto possa avere un impatto securitario molto più vasto, anche per i legami transnazionali creati dai gruppi terroristici nel corso degli ultimi vent’anni.

“Il terrorismo jihadista è cambiato, si è evoluto”, ha detto Enrico Casini alla presentazione, ospitata dalla Luiss, del testo da lui curato insieme ad Andrea Manciulli, rispettivamente direttore e presidente di Europa Atlantica. Il libro, “2001-2021 Vent’Anni di Guerra al Terrore”, è pubblicato da START InSight ed è una collettanea di analisi prodotte da vari esperti diversi che affrontano sostanzialmente la domanda: venti anni dopo i drammatici attacchi terroristici a New York e Washington, e dopo l’inizio della guerra globale al terrore con l’avvio dell’intervento in Afghanistan, cosa è cambiato nel mondo e nel sistema internazionale?

Quanto questi eventi hanno contribuito ad accelerare processi di cambiamento in atto a livello geopolitico, economico, sociale? Come è cambiato il terrorismo jihadista, le sue organizzazioni principali e come sono evolute le strategie di contrasto e di repressione messe in atto dai paesi occidentali?

Intervenendo alla presentazione del libro, il direttore di Repubblica Maurizio Molinari ha fatto notare anch’egli come la questione della guerra ucraina produca il rischio di contraccolpi sul mondo delle organizzazioni terroristiche – ed è uno dei rischi della sirianizzazione del conflitto, connesso anche all’arrivo sul territorio europeo di vari miliziani stranieri, siriani, centrafricani, libici, ceceni.

Molinari ha ricordato che una delle prime preoccupazioni espresse dal francese Emmanuel Macron, quando i suoi strateghi lo hanno ragguagliato sull’attacco russo, ha riguardato proprio chi e come prenderà il ruolo della Russia in determinati quadranti, come il Sahel o la Siria.

Complice anche la sostanziale incapacità tecnica nel procedere con l’offensiva in Ucraina, ricordata anche dal presidente della Fondazione Med Or, Marco Minniti, abbinata alla necessità di non perdere la faccia, Mosca potrebbe essere portata a rimodulare l’impegno su altri fronti e concentrarsi sulla conquista di Kiev. Ma molti di quei fronti si trovano in aree – come la Repubblica Centrafricana, il Mali, la Libia, la Siria appunto – dove le unità russe, regolari o mercenari che siano, fronteggiano anche l’insorgenza terroristica jihadista.

C’è dunque effettivamente il rischio di un vuoto di potere nelle aree del Medio Oriente e del Nord Africa, ossia quelle del Mediterraneo allargato in cui l’Italia esprime la propria proiezione politica internazionale. E quel vuoto potrebbe tornare a essere riempito dai gruppi terroristici organizzati se non ci si muove per colmarlo. Il rischio è che ci si trovi davanti a una condizione di più fronti aperti è reale, e i gruppi terroristici hanno ormai acquisito la grande capacità di risorgere rapidamente e sfruttare gli spazi a disposizione.

È ragionevole pensare che il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, parlerà anche di questo al summit Nato programmato per giovedì 24 marzo, perché l’indebolimento con cui la Russia uscirà dalla crisi ucraina (dove uno scenario credibile si porta dietro uno stallo violento permanente) creerà quel vuoto. E la sfida per l’Occidente non riguarderà solo fronteggiare Mosca, ma anche evitare di essere risucchiati in quel vuoto.

Molinari sottolinea anche il ruolo della Cina. Le Democrazie devono premunirsi davanti a questa molteplicità di rischi, ha spiegato, e impiegare risorse umane e tecnologiche per affrontarle, perché la Cina non è detto che decida di far parte di un eventuale unico sistema che difende i cittadini del mondo. Ossia, per il direttore il reale rischio è che le condizioni caotiche violente che si trovano all’esterno del mondo delle democrazie vi entrino all’interno.

Quello che appare chiaro in una lettura ampia della situazione attuale è che si va verso una stagione di insicurezza prolungata. Le risorse occidentali sarà impegnate a usare tutte le capacità di analisi e prevenzione. Innanzitutto quelle tecniche: Minniti ha ricordato che il 9/11 è stato di fatto una “clamorosa défaillance dell’intelligence americana”, ma a distanza di vent’anni “ci siamo trovati davanti a una delle più clamorose azioni di previsioni fatte dall’intelligence, americana, contro tutti: contro tutto quello che pensava il resto del mondo” – l’invasione ordinata da Vladimir Putin.

E poi c’è l’aspetto culturale, ossia il sostegno che le Democrazie riescono a dare alla tutale della sicurezza e dello sviluppo dell’individuo. Qui si gioca buona parte della sfida. Anche sul tema della sicurezza interna, anche perché “non possiamo immaginare che tutto quello che c’era prima nel campo del terrorismo sia finito: anzi”, ha ricordato Franco Gabrielli, sottosegretario di Stato con delega all’intelligence e alla sicurezza.

“Abbiamo perso il conto dei frammenti dello Stato islamico in giro per il mondo, e c’è ancora Ayman al Zawahiri che guida al Qaeda: sono due decenni che è ancora lì”, ha aggiunto Gabrielli delineando anch’egli i rischi derivanti dal terrorismo, aggiungendo che certe questioni sono collegate e per questo gli apparati di sicurezza italiani hanno “un’attenzione continuativa” su queste dinamiche.

Il quadro è chiaro: la guerra in Ucraina potrebbe produrre una crisi securitaria globale – e non è detto che questo non rientri negli obiettivi di Putin. Manciulli ha spiegato che l’approccio multidisciplinare del testo ripercorre certi obiettivi: “Venti anni fa ci siamo posti il problema del quanto stava cambiando lo scenario della sicurezza, e come potevamo proteggere la democrazia”, ha detto, definendo il 9/11 uno “scacco all’Occidente”, ma la situazione attuale “ancora più grave”.

Secondo il presidente di Europa Atlantica la cultura, il pensiero, sono l’antidoto: “La comunicazione è diventata una grande arma di guerra, forse la principale, e qui serve avere gli argomenti per proteggersi. E noi siamo i soldati degli argomenti”.


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