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Altre 80 aziende cinesi, quotate a Wall street, nel mirino degli Usa

Un mese fa il primo vero cedimento della Cina, con l’annuncio della possibilità per i funzionari della Sec americana di aprire i libri contabili delle big tech del Dragone quotate a New York, pena il delisting coatto. Ma Washington alza il tiro e infila decine di altre aziende nella lista di chi deve adeguarsi agli standard di trasparenza Usa

E pensare che, solo un mese fa, la Cina aveva dato i primi segni di cedimento. Consentendo alle autorità di vigilanza statunitensi di mettere finalmente il naso nella società del Dragone quotate a Wall Street. Pena il delisting coatto entro e non oltre il 2023. Come noto, agli sgoccioli del suo mandato, Trump varò una stretta contro le aziende tecnologiche cinesi quotate alla Borsa americana che si rifiutavano di aprire i libri contabili per consentire ai funzionari statunitensi di verificare l’esistenza di eventuali pericoli per la sicurezza nazionale.

Chi avesse continuato a opporre resistenza, sarebbe stato escluso dai listini a stelle e strisce entro pochi mesi. La prova di forza ha evidentemente funzionato, visto che ai primi di aprile, dopo l’ennesimo aut aut da parte della Sec, la Consob americana, Pechino aveva ceduto, preferendo obbedire alla richiesta di Washington piuttosto che fare i bagagli e rinunciare alla finanza americana, soprattutto ora che l’odore delle sanzioni imposte alla Russia comincia a farsi forte, anche nella Repubblica popolare. Eppure, qualcuno ai piani alti della Sec non deve essere rimasto troppo soddisfatto.

Altrimenti come si spiegherebbe il fatto che i regolatori statunitensi abbiano in questi giorni aggiunto più di 80 aziende, tra cui JD.com Inc., Pinduoduo e Bilibili, alla già corposa (circa 270 aziende in ambito tecnologico, inclusa Alibaba) lista di imprese cinesi quotate a Wall Street in odore di scarsa trasparenza. E così, come rivelato dall’agenzia Bloomberg, l’elenco si allunga, con l’aggiunta di altre imprese che hanno al massimo un anno per conformarsi ai requisiti di ispezione. Tra i nuovi arrivi, anche aziende non necessariamente legate al settore tecnologico, come China Petroleum&Chemical Corp, JinkoSolar Holding, NetEase e Nio.

Le autorità cinesi si stanno preparando a dare ai regolatori statunitensi pieno accesso ai bilanci delle aziende quotate negli Stati Uniti. E che da parte del Dragone ci sia una qualche forma di collaborazione è provato anche da una nota emessa dalla stessa JD.com. La quale “cercherà di mantenere la sua quotazione negli Stati Uniti. La società continuerà a rispettare le leggi e i regolamenti applicabili sia in Cina che negli Stati Uniti, e si sforzerà di mantenere il suo stato sia sul Nasdaq che sulla Borsa di Hong Kong”.

Anche perché Pechino non può certo permettersi una fuga precipitosa delle sue aziende dalla principale piazza finanziaria mondiale. Non in questo momento almeno, quando lo spettro delle sanzioni si allunga anche sulla Cina alleata della Russia. Come raccontato da questa testata infatti, il Dragone non può certo permettersi che le sue banche siano dall’oggi al domani estromesse dai circuiti occidentali, come avvenuto per l’ex Urss.

Sanzione, questa, che potrebbe benissimo materializzarsi qualora il conflitto in Ucraina si allargasse e la Cina decidesse di appoggiare platealmente la Russia. E poi, c’è l’effetto domino. La crisi degli istituti russi, da sempre legati a doppio filo con quelli cinesi e ora costretti a un consolidamento di capitale su larga scala per evitare fallimenti a catena, potrebbe propagarsi presto o tardi a quelli cinesi.

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