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Il destino dell’Artico tra Russia, Cina e Nato

Il riscaldamento climatico sta trasformando le rotte dell’Artico come un obiettivo strategico prioritario per un Paese come la Russia. Mosca ha l’occasione di accedere ai mari cruciali dei traffici globali, innescando una competizione geostrategica tra potenze

Intervenendo al Forum economico di San Pietroburgo qualche giorno fa, il potentissimo Igor Sechin, guida della petrolifera russa Rosneft, oligarca a cui le autorità spagnole hanno sequestrato uno yacht da 135 metri (il Crescent, valore intorno ai 600 milioni di dollari) per effetto delle sanzioni imposte dall’Ue dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha parlato di Artico. Per la precisione, in un discorso infarcito di retorica anti-occidentale – durante il quale in realtà non è nemmeno sembrato troppo a proprio agio nel difendere in toto la linea putiniana – ha detto che “l’Arca di Noè” per salvare la Russia da questo fantomatico diluvio universale scatenato dall’Occidente “si trova nell’Artico russo e si chiama Vostok Oil”.

Questo gigantesco progetto petrolifero in fase di sviluppo lungo le remote rive del grande fiume Yenisey è “l’unico al mondo in grado di portare un effetto stabilizzante sul mercato del petrolio”, ha detto Sechin – dimostrando come la Russia stia già facendo fronte a un possibile sganciamento del mondo Opec dalla traiettoria comune di qui tenuta. Sganciamento anche legato alle quote di mercato che Mosca si sta assicurando con scontistiche extra, come quelle che le hanno permesso di superare l’Arabia Saudita tra i fornitori della Cina.

Il manager putiniano ha aggiunto che il progetto prevede l’esportazione attraverso la “Via del Mare del Nord”, e che di conseguenza “non ci sarà alcuna dipendenza da compagnie straniere e catene logistiche”. Inoltre, il progetto non è tecnologicamente difficile da sviluppare per la Rosneft: “Abbiamo tutte le competenze, le conoscenze e l’esperienza necessarie, e in questo tipo di progetti il 98% della tecnologia è prodotta in Russia”. Se con la prima sottolineatura rivendica un’egemonia russa sulle rotte artiche, con la seconda diventa necessaria visto che le componentistiche petrolifere sono sanzionate sin dal luglio 2016, dopo l’annessione ucraina del 2014.

Secondo quanto riferito, il Vostok Oil produrrà fino a 115 milioni di tonnellate di petrolio all’anno entro il 2033. Se Sechin parla adesso dell’enorme progetto sul delta dello Yenisey non è solo per contrattaccare alle decisioni sanzionatorie che Ue (parziale embargo), Usa (boicottaggio) e G7 (price-cap) stanno compiendo riguardo al petrolio russo. Il manager russo è consapevole che quell’attività estrattiva sarà profittevole perché nel corso dei prossimi decenni le rotte artiche diventeranno un centro di passaggio – da Nord – e utilizzabili per vari tipi di commerci.

La Russia ha un forte interesse alla regione da sempre, innanzitutto perché è lì che si concentrano le sue maggiori linee costiere. Linee che per anni hanno rappresentato parte di una sorta di frustrazione russa, in quanto difficilmente navigabili (soprattutto in determinati periodi dell’anno) e dunque non cruciali per i commerci globali – a questo si lega la costante ambizione strategica verso l’accesso ai mari caldi, come il Mediterraneo (l’annessione della Crimea, l’intervento in Siria, le attività in Libia, i tentativi di aprire una base in Sudan si legano anche a ciò).

Ora che i cambiamenti climatici – connessi al global warming – stanno sciogliendo i ghiacci del Polo Nord a un ritmo triplo rispetto al resto del pianeta, le acque dell’estremo settentrionale sono diventate un enorme elemento di interesse. L’aumento della potenzialità di navigazione coincide con quello della possibilità di sfruttare le capacità della regione in termini di risorse naturali, rendendo i reservoir (di gas, petrolio) artici esplorabili.

“L’Artico, dopo decenni di silenzio, è negli ultimi anni una regione tornata prepotentemente al centro della competizione e degli interessi strategici delle grandi potenze: la Russia (ovviamente), la Cina, e anche gli Stati Uniti”, ha scritto Enrico Casini in un’analisi pubblicata sul sito di Europa Atlantica, associazione culturale sempre attentata a certe evoluzioni. Siamo davanti a una sorta di “nuova corsa al polo”, come la definisce Casini ricordando quando più di un secolo fa le grandi spedizioni di esploratori erano state finanziate per scoprire i misteri (e le potenzialità) di quella che al tempo era la regione più inaccessibile e sconosciuta del mondo.

Secondo Casini, assisteremo rapidamente, nei prossimi anni, all’apertura di nuove rotte oceaniche, capaci di unire Levante e Ponente, Pacifico e Atlantico, passando da nord. Questo avrà “un impatto potenziale, sul piano economico, commerciale, strategico, geopolitico, che possiamo tranquillamente paragonare a quello che fu determinato, cinquecento anni fa, dalla scoperta della rotta intorno al continente africano o da quella per l’America, o più recentemente dall’apertura di canali come Suez e Panama”.

Tale sviluppo renderà territori come il Mare del Nord, il Baltico, l’Islanda e la Groenlandia snodo di competizioni geopolitiche (per quanto sgangherata nella forma, l’idea trumpiana sulla Groenlandia aveva una sua ragion d’essere collegata alle strategie artiche). Altrettanto un ruolo centrale ce lo avrà la penisola scandinava, e questo rende l’inclusione di Svezia e Finlandia nella Nato un elemento di grande interesse anche in ottica Artico.

Anche in questi giorni, la regione ha fatto segnare frizioni di carattere militare, quando la Lituania ha cominciato a bloccare le forniture di beni sotto sanzioni spostati via treno dalla Russia verso Kalinigrad – exclave russa in pieno territorio europeo – passando per il paese baltico. La decisione lituana – Paese membro Nato – è stata definita “ostile” dal governo russo, che ha annunciato pesanti ritorsioni. Il gruppo di hacker russo Killnet ha lanciato un attacco informatico contro le istituzioni statali e private lituane, dismontando come quelle ritorsioni possono toccare domini diversi e interconnessi.

In Norvegia, a marzo, la Nato ha condotto l’esercitazione “Cold Response 2022”. Per circa un mese, trentamila militari da 27 nazioni hanno affrontato scenari operativi nel clima rigido della Scandinavia e dell’Artico. Alle manovre l’Italia ha partecipato con un assetto di primo livello, la portaerei “Garibaldi”, che ha fatto da quartier generale della componente anfibia. Un mese prima, più di 20 navi della Flotta del Nord della Russia hanno iniziato esercitazioni live-fire nel Mare di Barents – era febbraio, nei giorni che hanno preceduto l’invasione ucraina.

La Russia è consapevole di avere dei vantaggi nella partita artica, non fosse altro per la connotazione geografica che copre un’ampia porzione della regione. Mosca vuole sfruttare questi potenziali vantaggi per muoversi in avanti pensando a un proprio ruolo globale. Per esempio, la Cina – che rivendica di essere una nazione artica, dunque un attore di primo piano e su questo la partnership con la Russia si complica– potrebbe avere bisogno e interesse nell’usare rotte alternative per le merci dirette in Europa. Le linee di collegamento artiche russe potrebbero nascere per aggirare i rallentamenti di passaggi come quello di Suez e darebbero a Mosca vantaggio (anche su Pechino).

Questo diventa un elemento di connessione tra i destini di Artico e Mediterraneo, due confini dell’Europa come spiega Casini nella sua analisi. Questo collegamento è stato fatto anche dal Cremlino in occasione del blocco del canale da parte del mega-cargo “Ever Given”. Fu Nikolai Korchunov, la persona di punta di Mosca per la strategia nell’Artico, a suggerire che la Comunità internazionale doveva iniziare a prendere in considerazione le rotte settentrionali come alternativa al passaggio mediterraneo per i collegamenti tra Oriente ed Europa.

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