Il Parlamento europeo parla di crimini contro l’umanità e serio rischio di genocidio nello Xinjiang e chiede ulteriori sanzioni su alti ufficiali cinesi. Tra essi Zhao Kezhi, capo della polizia cinese. È giunta l’ora che il Viminale riveda gli accordi firmati con Pechino. Il commento di Laura Harth, campaign director di Safeguard Defenders e coordinatore Global Magnitsky per l’Alleanza inter-parlamentare sulla Cina (Ipac)
Crimini contro l’umanità e serio rischio di genocidio nello Xinjiang. Atrocità che si inseriscono in un ampio quadro di politiche repressive ed aggressive da parte del Partito comunista cinese, dentro e fuori dalla Cina. È storica la risoluzione urgente adottata oggi dal Parlamento europeo a seguito dal rilascio dei Xinjiang Police Files. Un linguaggio così diretto e forte non si era ancora visto dall’assemblea plenaria di Strasburgo, anche se non si era certamente tirato indietro sulle critiche costanti al regime di Pechino negli ultimi anni. Ne è testimone un editoriale del China Daily del gennaio scorso, avvertendo i deputati europei di essersi pericolosamente montati la testa con una risoluzione di condanna delle politiche repressive a Hong Kong.
Possiamo già immaginare la loro reazione a seguito della risoluzione di oggi che ribalta espressamente la messa in scena della visita in Cina di Michelle Bachelet, Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani a fine maggio. Un’opera di propaganda i cui frutti si dimostrano – e meno male – velenosi sia per il regime di Pechino sia per la stessa inviata. Ma andiamo per gradi e guardiamo soprattutto ai messaggi che la risoluzione mandi anche all’Italia.
La risoluzione d’urgenza sulla situazione dei diritti umani nello Xinjiang non solo si contraddistingue per il suo essere conciso e il suo linguaggio diretto, ma soprattutto per l’elenco delle azioni concrete su cui una maggioranza schiacciante dell’unico organo eletto al livello europeo chiede all’esecutivo di Bruxelles e dei governi nazionali di agire senza indugio. Riconoscendo che il rapporto tra la Repubblica popolare e l’Unione europea è sempre di più caratterizzato da una competizione economica e rivalità sistemica, impone all’Unione e gli Stati membri di assumere tutte le iniziative conformi alla Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio per porre fine alle atrocità e di assicurare giustizia per i crimini commessi.
Si torna anche sulla richiesta di un blocco alle importazioni dei prodotti frutto di lavoro forzato, nonché un controllo stringente con collegate sanzioni ed esclusione dei bandi pubblici delle entità commerciali coinvolte nella costruzione e gestione dei campi nello Xinjiang e/o i sistemi di sorveglianza di massa utilizzati per la repressione di massa. Leggasi, per esempio, le decine di migliaia di sistemi di videosorveglianza cinesi che proliferano anche nel nostro Paese, dai palazzi di potere ai più piccoli comuni.
E già qui possiamo facilmente immaginare le reazioni delle aziende interessate, come Hikvision e Huawei. Ma la grana più pesante per Pechino – e l’Italia – sta in quanto segue. Per la prima volta, il Parlamento europeo collega senza mezzi termini quanto accade nello Xinjiang non solo a quanto accade nella Cina intera, ma anche alla crescente repressione transnazionale. Il rapporto Ritorni involontari, pubblicato da Safeguard Defenders il 18 gennaio scorso, aveva documentato la miriade di misure irregolari adottate da Pechino per instaurare un regime di terrore politico nel mondo intero, con operazioni dichiarate in oltre 120 Paesi. Le rivelazioni avevano già portato all’annuncio di fine marzo di restrizioni di visto sugli ufficiali cinesi coinvolti nel lavoro di repressione transnazionale da parte del dipartimento di Stato americano, ma in Europa gli agenti cinesi – operando sotto varia copertura o semplicemente in modo palesemente illegale – hanno potuto continuare i loro sforzi senza sosta come dimostra un caso tutt’ora aperto in Cipro.
Spicca dunque tra i nominativi fatti espressamente nella richiesta di sanzioni mirate da parte del Parlamento europeo quello di Zhao Kezhi, consigliere di Stato e a capo del Ministero per la Pubblica sicurezza cinese. Un ministero, come abbiamo scritto già in occasione del rilascio dei Xinjiang Police Files, coinvolto in tutte le violazioni dei diritti umani più palesi nella storia recente della Repubblica popolare: dalla gestione dei campi nello Xinjiang e la repressione violenta a Hong Kong, all’utilizzo massiccio delle cosiddette black jail del sistema Rsdl – utilizzato soprattutto contro dissidenti, giornalisti e stranieri; più volte condannato dalle Nazioni Unite –, fino al suo ruolo chiave nell’esecuzione delle operazioni di repressione transnazionale sotto la campagna Fox Hunt.
Non è un caso quindi che oltre a richiedere sanzioni individuali su Zhao Kezhi, per la quinta volta il Parlamento europeo reitera non solo la sua richiesta ai Stati membri – tra cui l’Italia – di sospendere urgentemente tutti i trattati di estradizione ancora in vigore con la Cina e/o Hong Kong, ma anche di identificare e mitigare con urgenza i rischi legati all’interferenza cinese e i suoi tentativi di repressione transnazionale contro dissidenti o membri della comunità uigura.
Buon intenditore comprende che tale linguaggio non è lì a caso. Rappresenta un invito espresso all’Italia – e non solo – a mettersi all’opera per mettere in salvo la sua sovranità territoriale dalle interferenze cinesi e tornare a proteggere appieno i diritti garantiti dalla Costituzione e dei trattati internazionali. Si rivedano quindi con urgenza gli accordi sottoscritti ingenuamente nel 2015 e il 2017 dal Viminale con il ministero per la Pubblica sicurezza cinese. Oggi, piuttosto che domani.