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Se in Italia il partito cinese perde pezzi

L’implosione dei Cinque Stelle con l’uscita dell’area moderata e atlantista ha anche riflessi internazionali. Va in frantumi un partito (trasversale) cinese in Italia già picconato da Draghi e da una parte del Pd. Dal 5G allo shopping, la posta in gioco per Pechino

Che fine ha fatto il partito cinese? Qualcuno a Pechino se lo starà domandando. Mentre la politica italiana si sgretola di fronte alla crisi europea, in frantumi finisce anche un partito trasversale che da anni in Italia strizza l’occhio alla Città Proibita.

La scissione del Movimento Cinque Stelle per mano di Luigi Di Maio ha infatti implicazioni non secondarie anche sul piano internazionale. Con il divorzio grillino viene ridimensionata e non di poco la forza politica che più di tutte in questi anni ha fatto sponda ai desiderata cinesi.

Va messo in conto anche questo a Mario Draghi, il premier che tutti credevano tecnico e invece dopo un anno si è dimostrato catalizzatore di un fenomeno squisitamente politico. Non si sa se avrà un riflesso elettorale. È un fatto però che “il partito di Draghi” stia rimodellando con la facilità del pongo la politica italiana. I numeri non mentono: i Cinque Stelle, ha ricordato sornione Di Maio dal Bernini Bristol due giorni fa, “non sono più il primo gruppo in Parlamento”. Di più: con il battesimo di Insieme per il futuro (Ipif) – questo il nome della nuova formazione in aula, per ora non un nuovo partito – il ministro degli Esteri presenta un conto salato agli ex compagni grillini, costretti a dividersi posizioni e budget nelle più importanti commissioni parlamentari.

Si dirà: è un trasloco, non una scissione. Dopotutto fino a ieri il Movimento era uno e come tale decideva, affari esteri inclusi. Quando Giuseppe Conte ha firmato alla presenza di Xi Jinping il memorandum per far entrare nella Via della Seta l’Italia, primo Paese G7 a rompere le righe, al suo fianco c’era Di Maio. Con lui il sottosegretario Manlio Di Stefano e tanti altri dei “futuristi” confluiti ora nella nuova formazione. Ma era un’altra stagione, oggi sconfessata nei numeri e nei fatti. Archiviate le sbandate gialloverdi la lobby cinese ha iniziato a perdere consensi nel palazzo.

La prima virata con il governo Cinque Stelle-Pd, che come primo provvedimento, non a caso, ha scelto di inaugurare il “Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica”, la rete di controlli tech per filtrare gli investimenti cinesi in asset sensibili per lo Stato. Una soluzione a suo modo alla querelle del 5G cinese e al caso Huawei-Zte, i colossi high-tech cinesi che gli Stati Uniti (e il Copasir) hanno chiesto di mettere al bando dalla rete per questioni di sicurezza nazionale.

Poi con il governo Draghi, partito con l’intento cristallino di rimettere il Paese sui binari dell’atlantismo e dell’europeismo. Responsabile, fra l’altro, del lancio dell’Agenzia cyber (Acn), il presidio ultimo della cybersicurezza italiana oggi guidato da Roberto Baldoni. Una rete di sicurezza ha acceso i riflettori sulla penetrazione cinese economica, politica, tecnologica. Basti pensare all’ombrello del golden power, i poteri speciali di Palazzo Chigi estesi a dismisura e per tre volte usati da Draghi per fermare lo shopping di Pechino, l’ultima a difesa di un gioiello della robotica italiana.

Sullo sfondo, un contesto internazionale che ha imposto una scelta di campo. Per gli Stati Uniti la Cina rimane il rivale numero uno. Trump o Biden cambia poco: come ribadirà la prossima Strategia per la Difesa americana (e in parte il summit Nato di Madrid) la minaccia cinese è considerata prioritaria dal fronte atlantico.

In Italia il messaggio è passato. Non ovunque, certo. Nel Movimento (e in qualche angolo del Pd) rimangono risacche di resistenza. Confinate però a un’area politica angusta. Da una parte Beppe Grillo e il suo blog affollato di articoli che negano la persecuzione degli uiguri nello Xinjiang (riconosciuta all’unanimità dal Parlamento italiano) e difendono le mire cinesi su Taiwan. Dall’altra la zona di Alessandro Di Battista e dei “non allineati”, interpreti del movimentismo della prima ora, che inevitabilmente torneranno ad avere un ruolo, di traino o di leadership, in quel che resta del Movimento Cinque Stelle liberatosi dell’ala “moderata”.

Si tratta però ormai di un’area minoritaria, dentro e fuori il palazzo. E qui non può sfuggire all’occhio attento che nel giro di pochi anni il “partito cinese” italiano ha perso forze e risorse. La scissione grillina, raccontata da Di Maio (con successo, a giudicare dalla rassegna stampa estera) come una crisi dall’eco internazionale, fra atlantisti e non, cala un altro pezzo di sipario.

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