Nell’80% dei casi, la società madre europea detiene una quota di minoranza. In un caso su quattro il rischio di coinvolgimento del governo di Pechino è considerato “alto” o il trasferimento di tecnologia è considerato un elemento “probabile” dell’accordo. Ecco cosa possono fare i 27 per alzare le difese
Nell’Unione europea e nei suoi Stati membri non c’è sufficiente comprensione della natura delle joint venture sino-europee e dei rischi connessi ai trasferimenti di tecnologia alla Cina. Serve una politica per evitare che questi accordi favoriscano, a spese industriali e geopolitiche dell’Unione europea, l’agenda strategica cinese, in particolare il programma Made In China 2025 attraverso cui Pechino vuole raggiungere il dominio globale nella produzione high-tech. A queste conclusioni sono giunti gli esperti della neonata Clingendael-Datenna Initiative on Sino-European Strategic Dependencies nell’alert “Sino-European Joint Ventures and the Risk of Technology Transfers”.
Gli analisti di questo progetto di ricerca hanno preso a campione un gruppo di venti joint venture sino-europee, elemento centrale della relazione economica, che sono tratte dal database di Datenna e da un’ampia ricerca su 13.000 joint venture sino-europee in Cina.
Naturalmente, non tutte le joint venture sono veicoli per il trasferimento di tecnologia o sono di interesse economico strategico. Ma alcune sì, e prevedono trasferimenti di tecnologie rilevanti per la sicurezza e gli interessi geopolitici dell’Unione europea.
Gli esperti hanno scoperto che le joint venture sino-europee sono attive in tutti e dieci i settori tecnologici Made in China 2025; nell’80% dei casi nel campione considerato, la società madre europea detiene una quota di minoranza; nel 25% il rischio di coinvolgimento dello Stato cinese nella joint venture è considerato “alto”; nel 25% il trasferimento di tecnologia è considerato un elemento “probabile”.
Tra le 20 joint venture del campione non ne figurano che coinvolgano l’Italia, primo e unico Paese del G7 ad aderire alla Via della Seta nel 2019, intesa che a distanza di tre anni sembra essere stata abbandonata da Roma con il governo Draghi. Figura al sesto posto in Unione europea per investimenti in Cina con 4,6 miliardi di euro. In totale, la mappa EU-China Joint Venture Radar conta 1270 investimenti, oltre metà dei quali nei settori dei prodotti di consumo e servizi (35,75%) e macchinari (18,82%).
Un altro fenomeno che riguarda l’Italia sono le acquisizioni cinesi: basti pensare che in 20 mesi da presidente del Consiglio, Mario Draghi ha esercitato i poteri speciali in cinque casi relativi alla Cina (l’azienda di robotica Robox, quella di droni Alpi Aviation, quelle dei semiconduttori Applied Materials Italia e Lpe, e quella delle sementi Syngenta). Il 31 maggio scorso, il presidente Draghi ha firmato il Dpcm con cui ha esercitato i poteri speciali su un’operazione di trasferimento di tecnologia da Robox, società italiana con sede nel Novarese, verso la cinese Efort Intelligent Equipment, leader nella robotica e legata al governo di Pechino. Il livello di influenza dello Stato cinese in quest’utlima “è considerato elevato e la produzione di componenti robotici è allineata alle priorità di sviluppo industriale definite nel progetto Made In China 2025”, avevano spiegato gli esperti di Datenna a Formiche.net.