Gli Stati Uniti e l’Unione europea avevano fatto pressioni per evitare il taglio delle produzioni petrolifere, ma l’Opec ha deciso lo stesso. C’è un allineamento dell’Arabia Saudita con la Russia, che è funzionale a interessi reciproci e non collegati, ma il rischio adesso è che la decisione di far salire i prezzi del petrolio pesi sull’inflazione e in definitiva sull’economia globale
L’amministrazione Biden aveva lanciato una campagna di pressione su larga scala nel tentativo estremo di dissuadere gli alleati mediorientali dal ridurre drasticamente la produzione di petrolio. Ma questo sforzo è fallito dopo la riunione cruciale di mercoledì 5 ottobre, quando l’Opec+ — l’organizzazione internazionale dei produttori di petrolio che ai media americani piace chiamare “cartello” — ha annunciato un taglio da due milioni di barili al giorno alle produzioni.
Si tratta della più significativa riduzione e della produzione da dopo la fase acuta della pandemia (quando ne furono tagliati tutti insieme 10 milioni di barili, in via di emergenza davanti ai lockdown generalizzati). Il taglio non toccherà le esportazioni, che non saranno ridotti perché i principali Paesi Opec (Arabia Saudita, Emirati Arabi) in inverno consumano di meno.
Tutto è andato sostanzialmente come previsto. E anche se le società specializzate sottostimano il valore effettivo del taglio, attorno agli 800mila o massimo 1,1 milioni — sostenuto principalmente dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti e dal Kuwait visto che altri Paesi sono già lontani fra gli obiettivi produttivi fissati — è il messaggio di determinazione che conta.
L’Opec+ ha ignorato gli inviti di Washington quanto quelli di Berlino (il cancelliere era in visita nel Golfo nelle scorse settimane), Bruxelles (che cerca una nuova partnership strategica) e Parigi (che intende rivendicare un ruolo di buon comunicatore con quella regione di mondo).
“Gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali devono prestare attenzione. Per la prima volta nella storia recente dell’energia, Washington, Londra, Parigi e Berlino non hanno un solo alleato all’interno del gruppo Opec+. Durante il 1973-74, la Casa Bianca poteva contare sull’Iran, allora ancora controllato dallo Scià; nel 1979, durante la Rivoluzione islamica, l’Arabia Saudita era un amico utile. Nel 1990, quando Saddam Hussein invase il Kuwait, sia i sauditi che i venezuelani vennero in soccorso. Anche nel 2003, quando Washington è andato in guerra in Iraq, l’Arabia Saudita ha aiutato”, fa notare il commentatore esperto di energia Javier Blas.
E la situazione ha indispettito non poco la Casa Bianca. A caldo, la portavoce ha commentato che è ormai chiaro che l’Opec+ “è allineata con la Russia”. Il “+” indica infatti proprio la presenza di Mosca all’interno del meccanismo di dialogo decisionale, che per altro nella riunione di mercoledì è stato riconfermato per tutto il 2023. L’alleanza tra Riad (motore dell’Opec) e Mosca, iniziata sei anni fa, sta diventando un asse permanente, ridisegnando la geopolitica energetica — e conseguentemente la sicurezza energetica.
È anche innanzitutto una questione di feeling personale: mentre per esempio l’erede al trono saudita, il nuovo primo ministro Mohammed bin Salman, ha dichiarato di “non essere interessato” alle preoccupazione di Joe Biden riguardo al rispetto dei diritti nel regno, il leader de facto di Riad sembra essere più incline al rapporto con Vladimir Putin, come scriveva Grahem Wood sull’Atlantic.
Il Medio Oriente che sta diventando meno importante per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il “Pivot to Asia”, il ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan e l’aumento della produzione di petrolio/gas degli Stati Uniti sono “fattori tettonici” che avvicinano il Golfo a Mosca, come li definisce Andrew Weiss del Carnegie. “La Casa Bianca ha sottolineato che gli Stati Uniti non stanno andando da nessuna parte e che non permetteranno a Russia o Cina di colmare alcun vuoto. Eppure né i sauditi né gli altri paesi del Golfo sembrano persuasi dalle richieste degli Stati Uniti di smettere di flirtare con Mosca e Pechino”, aggiunge Weiss.
“La domanda è se Biden possa fare qualcosa per dissuadere l’Arabia Saudita dall’essere una spina ricorrente nel fianco dell’America”, si è chiesto Edward Luce sul Financial Times. La risposta saudita implicita è sì, spiega, a patto che Biden venga sostituito da un altro presidente, preferibilmente Donald Trump. Spietato, ma è vero che i legami del principe ereditario saudita con la famiglia Trump sono stati tanto intimi quanto è evidente la distanza dall’amministrazione Biden.
“L’Arabia Saudita fa quindi parte di un gruppo selezionato di Paesi che tifano per uno dei partiti americani piuttosto che per l’altro. Questo include la Russia di Putin, l’Ungheria di Viktor Orbán e Israele quando Benjamin Netanyahu è il suo primo ministro. Nel nuovo disordine mondiale, l’apertura dell’America può spesso essere il suo tallone d’Achille”, scrive Luce.
Paradossalmente, la Russia potrebbe ricevere un aiuto dai Paesi dell’Opec anche nei confronto al price cap europeo, che non piace ai sauditi. Lo ha spiegato Sergei Vakulenko, ex top manager di società petrolifere russe e ora docente e analista. Per i membri Opec il price cap rischia di manipolare potenzialmente l’intero mercato del petrolio e i suoi prezzi, e se l’operazione dovesse riuscire a costringere la Russia a rispettare le regole impostegli, i Paesi arabi potrebbero sentirsi i prossimi a essere colpiti.
“Se la Russia contrasta il tetto dei prezzi riducendo la sua produzione, quindi, l’Arabia Saudita potrebbe essere riluttante ad aumentare le sue esportazioni di petrolio per compensare la riduzione, indipendentemente dal fatto che abbia o meno una sufficiente capacità produttiva disponibile”, spiega Vakulenko.
In tutta la sua storia, l’Opec — e la sua recente incarnazione, l’alleanza Opec+ — non ha mai frenato così tanto la produzione, e così rapidamente, mentre il valore del Brent stava ancora flirtando con i 100 dollari al barile. Prezzi a tripla cifra utilizzati per spingere il gruppo in modalità output-boost, non il contrario.
Ma la mossa è un tentativo spinto di aumentare i prezzi del petrolio, anche se non ci sono state spiegazioni su tempi (immediati) e quantità (anomale per il contesto), se non una volontà di “essere in anticipo sulla curva del potenziale calo”, come dicono le fonti. Una scelta fatta “alla luce dell’incertezza che circonda le prospettive economiche globali e del mercato petrolifero”, dice invece il comunicato ufficiale dell’organizzazione.
Ma “tagliando così presto e così rapidamente, l’Opec+ sta giocando d’azzardo con l’economia globale”, spiega ancora Blas. L’aumento dei prezzi del petrolio, che dovrebbe seguire a breve, manterrà l’inflazione alta più a lungo, costringendo le più importanti banche centrali a politiche monetarie ancora più restrittive, aumentando le probabilità di una recessione globale.
È naturale pensare che, a sua volta, causerà un aumento dei prezzi della benzina negli Stati Uniti in un momento delicatissimo per l’amministrazione Biden, a sole cinque settimane dalle elezioni di metà mandato. E contemporaneamente colpirà i tentativi di ripresa europea e metterà in difficoltà la coesione attorno alla linea di Bruxelles, che scricchiola sull’energia in generale tra price cap e gestione della crisi dei prezzi.
Il presidente Biden ha dichiarato mercoledì ad Arlette Saenz della CNN di essere “preoccupato” per i tagli, che considera “non necessari”. Il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, ha detto ai giornalisti, interpellato sulla mossa, che “quando si tratta di Opec, abbiamo chiarito il nostro punto di vista ai membri”. “C’è un grande rischio politico per la vostra reputazione e per le vostre relazioni con gli Stati Uniti e con l’Occidente se andrete avanti”, diceva la bozza ottenuta dalla CNN sui talking points suggeriti dalla Casa Bianca alla segretaria al Tesoro, Janet Yellen, per comunicare alle sue controparti Opec.