È guerra aperta contro le pratiche anticoncorrenziali della società di Cupertino, che le sfrutta per aumentare i propri profitti (nel terzo trimestre del 2022 ha ottenuto record importanti). A muoversi non sono solo le grandi aziende californiane, Meta su tutte, ma anche quelle europee, con Spotify in prima linea per arginare lo strapotere della Mela
La slealtà di Apple non piace alle sue rivali. Nella Silicon Valley è guerra aperta contro l’azienda di Tim Cook, accusata di portare avanti pratiche anticoncorrenziali solo per il proprio tornaconto personale. Quindi, per il profitto. D’altronde, essendo l’unica che può contare su un proprio hardware, il vantaggio è abissale. Se poi ci mettiamo che lo usa anche come strumento di riscossione, allora non c’è partita.
Proprio il 24 ottobre scorso, l’azienda della mela morsicata ha aggiornato le proprie regole guida, per quanto riguarda l’App Store. In sostanza, quelle app che vendono post promossi devono ad Apple il 30% di quelle transazioni. Il che, come ovvio, ha suscitato le ire delle altre società. A cominciare da Meta, che ha già espresso tutto il suo dissenso per le nuove linee guida. “Apple continua ad evolvere le sue politiche per far crescere la propria attività, mentre mina gli altri nell’economia digitale. In precedenza”, continuano dalla società di Mark Zuckerberg, “aveva affermato di non aver preso una quota delle entrate pubblicitarie degli sviluppatori e ora ha apparentemente cambiato idea”. La contro risposta non si è fatta attendere e un portavoce di Apple ha affermato come queste regole fossero ben note da tempo.
Magari sì, ma non sono mai piaciute lo stesso. Nel 2020, era stata sempre Meta (all’epoca ancora sotto il nome di Facebook) a lanciare una campagna mediatica contro Apple. I maggiori quotidiani statunitensi – New York Times, Wall Street Journal, Washington Post – furono utilizzati come strumento per diffondere le pratiche anticoncorrenziali che venivano portate avanti come, in quel caso, il tracciamento da parte di Facebook. Una decisione che avrebbe “cambiato Internet come lo conosciamo oggi, ma in peggio” in quanto le aziende che vogliono inserire annunci mirati sarebbero state sfavorite.
Questo è però un discorso che si adatta in base alla località geografica. Apple si è prodigata più volte per rassicurare come la sua struttura permette di trattenere i dati dei suoi utenti iPhone senza cederli a terzi. Addirittura, Tim Cook eguagliava la privacy a “un diritto umano fondamentale”. Ma in Cina tutto questo non vale. Un quinto delle proprie vendite (50 milioni di iPhone, per intenderci) vengono prodotti lì e, per continuare a farlo, la società ha accettato le regole imposte da Pechino, che hanno poco a che vedere con la riservatezza delle persone.
“L’introduzione degli annunci sull’App Store conferma ciò che abbiamo sempre sostenuto”, ha affermato ad Axios Rick VanMeter, direttore esecutivo della Coalition for App Fairness. “Le pratiche anticoncorrenziali di Apple non hanno lo scopo di promuovere la privacy, la sicurezza o l’esperienza dell’utente, ma piuttosto di aumentare i profitti”. La società ci sta provando anche con i nuovi prodotti, soprattutto con gli ultimi modelli di iPhone che, rispetto alle versioni più vecchie, rappresentano il motore trainante della società.
Nel terzo trimestre dell’anno, le entrate di Apple ammontano a 90,1 miliardi di dollari, pari al 8% in più rispetto allo stesso periodo del 2021: un record per il trimestre, in cui è stato registrato anche un altro traguardo storico, ovvero i 20,7 miliardi di dollari alla voce utile netto. Il volano, come scritto, è stata l’ultima generazione del telefono più conosciuto al mondo (che da solo ha permesso di incassare quasi il 50%, in aumento del 9,7%), così come l’introduzione del 5G.
Un ruolo lo hanno svolto anche i servizi, Apple Music e Apple TV che hanno aumentato infatti i loro prezzi, ma la crescita è stata meno forte del passato. I 19,2 miliardi di dollari sono circa il 5% in più rispetto allo scorso anno ma inferiore rispetto agli aumenti anno su anno nei trimestri precedenti. Discorso diverso per le concorrenti, come Meta che ha visto bruciare 80 miliardi di capitalizzazione, facendo crescere ancor di più l’irritazione.
La lotta ad Apple, tuttavia, non si limita agli Stati Uniti ma interessa anche l’Europa. La svedese Spotify, infatti, martedì scorso ha manifestato la sua contrarietà alla nuova versione di audiolibri lanciata dalla società di Cupertino. Il problema di fondo rappresenta l’impossibilità per gli utenti di ricevere le informazioni necessarie per acquistare un determinato audiolibro al di fuori dell’app, impossibile per le regole interne di Apple. “Sta mettendo meno immaginazione dietro l’innovazione, raddoppiando allo stesso tempo la riscossione dei pedaggi e soffocando la concorrenza. Sta sfruttando ogni strumento nel playbook del monopolista”, ha dichiarato Harry Clarke, associate general counsel nonché avvocato principale del gigante audiovisivo.
Tre anni fa, tra l’altro, l’Unione europea si era schierata a fianco di Spotify contro le pratiche anticoncorrenziali e restrittive imposte da Apple. Da quel momento, i Paesi si sono tutelati. A partire dalla Corea del Sud, che giusto un anno fa introduceva nuove regole nei metodi di pagamento su app per limitare il monopolio delle Big Tech. La questione delle commissioni, insomma, doveva finire. Mentre Google si era prima definita scettica salvo poi acconsentire a seguire la legge, Apple aveva deciso di prendere tempo innescando una guerra con Seul. Ora dovrà combattere quella con le sue rivali, statunitensi quanto europee.