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Cosa porta Xi in Arabia Saudita? Interessi economici e politici

Cosa porta Xi Jinping a in Arabia Saudita, nel suo secondo viaggio in più di due anni? Una serie di interessi, e non solo economici, muovono Pechino verso Riad (che però intende evitare di diventare un satellite cinese)

Da mesi si parla di un imminente viaggio del leader cinese Xi Jinping in Arabia Saudita per incontrare l’erede al trono Mohammed bin Salman e rafforzare ulteriormente i legami tra Pechino e Riad. Ossia tra due Paesi guida del mondo delle potenze emergenti, sebbene la Repubblica popolare sia già una potenza totale de facto e il regno sunnita lo sia già a livello economico e capacità di investimento.

Non è ancora stata ufficializzata la visita: fonti informate sulle attività cinesi parlano di una data, 8 e 9 dicembre; dal lato saudita non arrivano commenti, e questo atteggiamento vago potrebbe legarsi a uno slancio eccessivo in annunci precedenti, quando questa estate tutto sembrava pronto per ospitare il leader cinese, che invece ha probabilmente aspettato il Congresso del Partito/Stato e la conferma al terzo – storico – mandato, prima di muoversi.

Per Xi lo spostamento ha anche un valore sul piano interno rispetto alle misure per il contenimento della pandemia. Dall’inizio dell’epidemia, il leader cinese si è mosso una sola volta dal Paese, per partecipare — tre mesi fa — al vertice della Shanghai Cooperation Organization (Sco). Lo Sco è parte della narrazione con cui Pechino intende diffondere il proprio modello di governance globale in competizione (e in alternativa) a quello occidentale — a guida statunitense.

La presenza al vertice Sco di Samarcanda per Xi aveva valore strategico (tra l’altro l’Asia Centrale è uno dei punti di aggancio di quella narrazione) tanto quanto un’eventuale visita nel Golfo. Connessione: Arabia Saudita insieme a Egitto, Qatar, Emirati, Kuwait e Bahrain sono diventati partner della Sco quest’anno.

Per costruire il proprio consenso globale, Xi Jinping punta da tempo a intestarsi il ruolo di potenza di riferimento del mondo in via di sviluppo (mentre sfrutta lo sfruttabile nel mondo ancora non sviluppato). Se l’approvvigionamento energetico è il tema del momento, la costruzione di nuove partnership economico-commerciali e la cooperazione militare con Paesi come quelli del Golfo è parte di un consolidamento internazionale che rischia di andare a netto detrimento degli Stati Uniti.

Per esempio: a dicembre scorso erano circolate voci su un possibile accordo tra Riad e Pechino per la produzione di missili balistici — accordo che passa dalla produzione in territorio saudita, ossia un passo in avanti rispetto alle forniture puramente commerciali dagli Usa. Qualcosa di simile riguarda i programmi sul nucleare e il petroyuan di cui si parla da diverso tempo e che ultimamente hanno ricevuto nuova spinta (anche solo nello storytelling).

La Cina ha sostituito l’Arabia Saudita con la Russia in cima ai fornitori di petrolio, ma sa che è una fase momentanea dovuta ai maxi sconti russi per sviare dalla pressione sanzionatoria occidentale: a Pechino serve differenziare perché Mosca non è affidabile sia commercialmente che politicamente. Tant’è che mentre dall’inizio della guerra di Vladimir Putin in Ucraina la Cina ha sostanzialmente bloccato nuovi progetti in Russia, in Arabia Saudita sono iniziate nuove intese per un valore attorno a 5,5 miliardi di dollari.

Questo dualismo Washington-Pechino sul Golfo è evidente. Le prime voci del viaggio saudita di Xi sono iniziate a circolare poche settimane dopo l’incontro tra bin Salman e Joe Biden di luglio e hanno sfruttato come storytelling contrasti e tensioni tra il presidente democratico statunitense e il sovrano sunnita. Durante quell’incontro, per esempio, i funzionari americani che accompagnavano il presidente avevano fatto pressione affinché i sauditi abbandonassero l’uso di tecnologie cinesi soprattutto nel campo delle telecomunicazioni (5G e 6G via open ran). Qualcosa di simile era già successo con gli Emirati Arabi Uniti.

Adesso sono i sauditi a rilanciare — in mezzo alle nuove tensioni con Washington prodotte dalla decisone dell’Opec+ di tagliare le produzioni petrolifere — sul possibile viaggio di Xi, anche se non danno date. Il ministro degli Esteri, Faisal bin Farhan, ha recentemente confermato che la visita ci sarà (e dopo mesi di indiscrezioni diventa anche fondamentale che sia così, altrimenti Riad perderebbe credibilità e sembrerebbe snobbata da Pechino), e ha fatto sapere che il presidente cinese sarà ospite di due summit con la Lega Araba e il Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC).

C’è in previsione un futuro accordo di libero scambio. C’è, per Xi, il valore di posizionare la Cina all’interno di quegli organismi multilaterali regionali (in cui finora gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo esterno ma centrale). Dal Golfo, Riad (e non solo) dimostra di percepire queste sensibilità. D’altronde, come il piano emiratino di costruirsi come hub logistico-commerciale globale punta ad agganciare alla Nuova Via della Seta marittima la String of Ports, anche Riad pensa a interconnettere dove-e-come possibile la Visione 2030 di bin Salman con la Belt & Road Initiative.

Wang Yi (ministro degli Esteri cinese, ndr) ha affermato che la parte cinese attribuisce grande importanza allo sviluppo delle relazioni con l’Arabia Saudita, prendendo l’Arabia Saudita come una priorità nella sua diplomazia generale, in particolare in quella mediorientale”, dice una nota del ministro degli Esteri cinese. “La Cina lavorerà con altri paesi BRICS per espandere l’adesione e portare più partner like-minded nella famiglia BRICS”, ha sottolineato il ministero a margine dei lavori dell’Alto comitato congiunto Cina-Arabia Saudita. Parole che arrivano dopo che il presidente russo Putin ha fatto sapere che la Russia sostiene l’applicazione dell’Arabia Saudita nell’organizzazione delle economie emergenti. Mosca e Pechino sono in competizione sul chi sarà il riferimento per questa parte di mondo, ma se la Russia ha finora tenuto botta con la narrazione, ma è la Cina e essere considerata più affidabile e futuribile.

Anche perché il Partito/Stato offre a quei Paesi la Global Developement Initiative (GDI) con cui sostituire il sistema di diritti e valori attorno a cui le nazioni occidentali hanno costruito le Nazioni Unite: un piano su cui Xi Jinping intende edificare il concetto di “diritto allo sviluppo”. Un progetto che chiaramente ha già ricevuto il sostengo di Riad.

Tuttavia l’Arabia Saudita ha la necessità di mantenersi in equilibrio: bin Salman è tutt’altro che persuaso di diventare una pedina cinese, perché vede per il suo regno un futuro roseo e indipendente. E perché vuole evitare una rottura drastica con Washington. Tant’è che per esempio il fondo patrimoniale saudita e la Foxconn di Taiwan stanno portando avanti i piani per la produzione di auto elettriche nel paese mediorientale (l’auto elettrica è un terreno su cui la Cina, nemica di Taiwan, soffre ogni genere di concorrenza).

In definitiva, differentemente dalla visione binaria statunitense (o noi o la Cina), Riad e i Paesi del Golfo — così come altri nel mondo soprattutto non occidentale — vogliono avere mani più libere e facilità di azione di lavorare su tutti i livelli sia con Washington che con Pechino.


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