La guerra tecnologica si focalizza sui chip all’avanguardia per la leadership nelle innovazioni del futuro. Tuttavia, l’economia digitale e l’industria avanzata si reggono su una serie di semiconduttori meno attenzionati, ma altrettanto importanti. Un segmento che rimane (per il momento) al di fuori dal perimetro di sicurezza tracciato dalle restrizioni americane…
Nei mesi scorsi, molto è stato discusso sulle conseguenze della penuria di microchip, soprattutto quelli leading edge (dai 7 ai 5 nanometri, e oltre). Asset strategici che sono diventati oggetto di investimenti pubblici e privati (come lo US Chips Act), nel tentativo da un lato di catturare una crescita imponente del mercato – con la domanda proveniente dai settori tecnologici di frontiera, come AI, 5G, supercalcolo, cloud computing e IoT – dall’altra dalla necessità di rafforzare la sicurezza delle forniture con nuove capacità manifatturiere tra Stati Uniti ed Unione europea.
Inoltre, la competizione tra Usa e Cina, con l’imposizione delle restrizioni all’export di tecnologia americana che ora vede i principali hub della catena del valore dei semiconduttori allineati con l’alleato statunitense, ha spostato l’attenzione principalmente sui chip più all’avanguardia, con l’obiettivo di frenare le ambizioni di autonomia tecnologica e militare della Repubblica Popolare Cinese. “Le sanzioni funzionano, ma la globalizzazione per l’industria dei semiconduttori è finita”, ha dichiarato Morris Chang.
Siamo così stati abituati, ormai, a pensare al ruolo imprescindibile di Tsmc, Intel e Samsung e agli imponenti investimenti in nuove fonderie per la produzione di chip alla frontiera della Legge di Moore. Quello che è tuttavia rimasto in penombra è il ruolo dei semiconduttori più maturi (o altrimenti definiti legacy michochip) che seppur siano il risultato di processi produttivi più consolidati (ma non per questo caratterizzati da minor innovazione) rappresentano ancora la maggior parte della capacità manifatturiera dell’industria dei chip a livello globale.
Parliamo di chip fondamentali per il settore automotive, dell’industria, della robotica, dell’elettronica di consumo, per i dispositivi medici, aerospaziali e militari. Microprocessori e microcontrollori senza i quali la vita moderna cesserebbe di operare al grado di efficienza e funzionalità cui siamo abituati, mentre la crescita dell’economia globale sarebbe seriamente compromessa.
Ma cosa sono i legacy chips? I circuiti integrati concepiti sui semiconduttori meno avanzati sono costruiti utilizzando tecniche e processi meno avanzati rispetto ai microchip logici utilizzati, per esempio, in uno smartphone. Secondo la definizione offerta dal Chips and Science Act, parliamo di quei dispositivi prodotti con tecnologia da 28 nanometri e oltre. Il Dipartimento del Commercio americano, infatti, sta ancora affinando la definizione di cosa rappresenti un semiconduttore all’avanguardia, ma il consenso tra gli analisti vuole che siano quelli sotto i 5 nm. Si tratta comunque di una definizione a geometria molto variabile e che – similmente per quanto avviene con le materie prime critiche – rincorre sempre le innovazioni (nel caso dei chip, la Legge di Moore) e la loro importanza economica relativa. Gli aggettivi “maturi” e di “vecchia generazione” tuttavia tradiscono una tecnologia comunque in evoluzione, e che vede l’impiego di nuovi materiali – come i chip al carburo di silicio – sui quali già si scommette per una nuova generazione di microcontrollori efficienti e sostenibili.
La stessa formulazione delle restrizioni all’export di tecnologia per la manifattura di chip ritenuti leading edge tradisce ancora un mindset che vede la capacità – o meno – della Cina di acquisire semiconduttori per tecnologie dual-use (e qui gioca l’elemento militare) la vera ratio per stabilire il perimetro della sicurezza nazionale. Senza tuttavia considerare che la sicurezza economica e industriale è stata, ai tempi della pandemia, e sarà in futuro per possibili frizioni geopolitiche con Pechino, un importante argomento per rafforzare le filiere e l’approvvigionamento di chip. E questo ancor più se si allarga lo spettro di valutazione ai chip cosiddetti “maturi”.
I dati ce lo confermano. Ad oggi, secondo gli analisti di IC Insights, oltre il 90% della capacità di produttiva globale per i semiconduttori avviene a nodi pari o superiori ai 10 nanometri. Una cifra considerevole, tenendo conto che il restante 10% è rappresentato da chip all’avanguardia attualmente prodotti in scala solo a Taiwan e in minima parte dalla Corea del Sud. Ed è quella fetta più piccola che fa più gola, ad oggi, ai governi occidentali. Ma se guardiamo alla suddivisione geografica della produzione per la restante parte, più cospicua per volumi, si scopre che l’Asia Pacifico (e in buona parte, la Cina) resta un hub produttivo di assoluta rilevanza per i chip “maturi”.
Non dobbiamo infatti dimenticare che la penuria di chip nel periodo pandemico ha riguardato specialmente questo segmento, impattando a più riprese automotive e industria. Dunque, se l’obiettivo del reshoring deve essere una maggiore sicurezza delle forniture, è evidente che investimenti, fondi dovrebbero confluire anche – e soprattutto, per il peso economico dei settori downstream coinvolti – qui.
All’inizio del 2022, il Dipartimento del Commercio americano ha diffuso i risultati di un sondaggio sugli impatti del chip crunch: quello che è emerso è che la maggior parte delle aziende ha patito la carenza di chip sopra i 40 nm, mentre i produttori di chip americani (come Global Foundries e Wolfspeed) hanno faticato a sostenere la produzione di fronte alla ripresa post-pandemica, nonostante fossero già al 90% della capacità operativa. Secondo i dati della SIA, negli USA gli investimenti privati stimolati dal Chips Act stanno confluendo principalmente lungo la supply chain dei chip all’avanguardia, non a caso il segmento su cui, in parallelo, si cerca di contenere selettivamente la Cina. Lasciando tuttavia ampi margini di manovra ai chipmakers cinesi che operano non sulla frontiera tecnologica e sui quali si regge, insieme ai fornitori giapponesi, coreani e ai produttori taiwanesi, il grosso dell’industria elettronica globale, e non solo.
Una questione che ha sollevato anche Chris Miller, autore di Chip War. “Quale sarà l’impatto degli investimenti della Cina sui chip meno maturi per il resto del mondo? Uno degli scenari è che potrebbero trasformarsi in una versione nuova dei pannelli solari”. Parafrasando: lasciare che la Cina continui a sussidiare l’industria dei chip meno avanzati, ai danni dei produttori occidentali, finirebbe per creare una nuova e pericolosa dipendenza, al pari di quella per pannelli e batterie elettriche. E la convergenza di questi investimenti è verso, non a caso, il settore automotive. L’espansione di questo mercato per l’industria dei chip è evidente: dai 38.7 miliardi del 2020, si prevede che il valore quasi quadruplicherà entro il 2030 con una crescita annuale (Cagr) dell’11.7% secondo le stime di Gartner. E con la progressiva penetrazione dei veicoli elettrici (Ev), il consumo di microcontrollori e sensori da parte dei produttori (Oems) di auto crescerà sensibilmente.
Il governo cinese ha di recente annunciato 143 miliardi di investimenti sull’industria nazionale di chip, che contava già per il 15% della capital expenditure nel 2022 a livello globale. La Cina inoltre raddoppierà la sua capacità di produzione di wafer al silicio nei prossimi dieci anni, raggiungendo circa il 19% della capacità installata su scala mondiale. Vi sono inoltre importanti novità anche per l’equipaggiamento Eda: la Sia ritiene che le aziende fornitrici cinesi siano già in una posizione solida e ormai autonoma per supportare l’espansione produttiva dei chip più maturi (40/28 nm), isolandoli potenzialmente da possibili embarghi da parte degli Stati Uniti. Anche Huawei avrebbe registrato importanti passi avanti per questi dispositivi per il design dei semiconduttori sopra i 14 nanometri, con l’obiettivo di svincolarsi dalla tecnologia americana (Cadence e Synopsys).
Dunque, il contenimento tecnologico di Usa e alleati per quanto concerne la capacità di Pechino di sviluppare i semiconduttori per le tecnologie disruptive potrebbe incentivare la Cina a consolidare la sua posizione industriale (e dunque la sua posizione di ricatto tecno-industriale) in un segmento che, contro intuitivamente, sarà sempre più pervasivo nell’economia globale e sui cui dipenderanno interi settori, civili e militari. E su cui, allo stato attuale, i policymakers sembrano non porre la necessaria attenzione in termini di investimenti.