Secondo fonti governative, Pechino avrebbe avanzato un’offerta tramite un’azienda privata per investire quasi 10 miliardi di dollari in Afghanistan, con l’obiettivo di sviluppare le riserve di litio del Paese. Si tratterebbe di un’altra mossa strategica per il controllo della preziosa risorsa, essenziale per l’industria delle batterie elettriche, in una corsa all’oro bianco ormai globale
Il ministro delle Miniere e del Petrolio talebano, Shahabuddin Delawar, ha annunciato che una compagnia cinese, denominata “Gochin”, avrebbe espresso l’interesse di investire circa 10 miliardi di dollari sui depositi di litio dell’Afghanistan.
Il regime talebano guarderebbe alla Cina come un potenziale partner per investimenti e cooperazione economica dopo la dipartita degli Stati Uniti nell’agosto 2021. Una prospettiva che potrebbe includere l’Afghanistan nella cintura dei paesi già coinvolti nella Belt and Road Initiative (Bri), iniziativa geopolitica che ha tuttavia raccolto risultati altalenanti.
Le compagnie e funzionari cinesi sono in contatto con i rappresentanti del governo talebano sin dalla restaurazione del regime islamico, per rinegoziare importanti contratti su petrolio e risorse minerarie. Lo scorso gennaio, i Talebani hanno firmato un accordo con la Xinjiang Central Asia Petroleum and Gas Company (Capeic) per estrarre l’oro nero nel bacino di Amu Darya, per un investimento complessivo di quasi 700 milioni di dollari in 4 anni. Secondo il contratto, il governo avrebbe inizialmente il 20% delle quote, che potrebbe arrivare fino al 75%.
Il ministro Delawar ha incontrato rappresentanti cinesi a Kabul, con cui avrebbe discusso i termini dell’investimento sulle risorse di litio e l’impatto potenziale, con circa 120.000 posti di lavori diretti e un altro milione di impieghi indiretti, oltre alla riparazione di alcune infrastrutture strategiche per il progetto e il paese. La Cina, con oltre metà delle vendite globale di veicoli elettrici (EV) nel Paese, ha sempre più necessità di assicurarsi le forniture di litio, cobalto, grafite e nickel su scala globale per saziare la sete delle sue industrie lungo la filiera. Le compagnie cinesi gestiscono circa due terzi delle attività di raffinazione del litio, con Pechino impegnato ad investire massicciamente negli stadi upstream e downstream per mantenere saldo il controllo sul minerale. Negli ultimi cinque anni, le aziende cinesi – tra cui Ganfeng e Tianqi Lithium – hanno investito in diversi Paesi del mondo, tra cui Argentina, Bolivia, Messico e Cile, quest’ultimo che di recente ha deciso di nazionalizzare l’industria domestica.
Seppur la Cina non goda di significative risorse di litio domestico – un game changer potrebbe essere lo sviluppo della lepidolite su scala industriale sufficiente a coprire una buona parte del fabbisogno interno – la necessità di accedere ai depositi più promettenti a livello globale ha causato non poche preoccupazioni per la sicurezza degli approvvigionamenti negli Stati Uniti e per l’Unione Europea. Soprattutto perché Pechino controlla il 58% (fonte Iea) della capacità globale di processazione dei minerali in litio battery grade, ovvero nel metallo ad una purezza per la fabbricazione dei catodi delle batterie. Secondo le stime di UBS, la quota mineraria per l’output di litio estratto dalle miniere sotto controllo cinese aumenterà dal 24% del 2021 al 32% entro il 2025, arrivando a quasi 705.000 tonnellate di LCE. Una quota significativa e in grado di influenzare il mercato – oltre ai rischi geopolitici – a prescindere dalla capacità degli altri paesi produttori (tra cui Cile, Argentina) di creare un cartello industriale.
Resta tuttavia il dubbio che l’accordo con i talebani nasconda, in realtà, motivazioni più politiche che economiche, considerando anche la storia non proprio convincente degli investimenti cinesi nel Paese. Nel 2017 Pechino aveva strappato con il governo in carica un accordo da 3 miliardi di dollari per sviluppare un grande deposito di rame, vicino a Kabul, un progetto tuttavia mai decollato. Nel 2007, la Cina aveva investito oltre 3 miliardi in una concessione di oltre 30 anni per la costruzione di una miniera di rame nel sito di Mes Aynal, con il coinvolgimento del contractor Mcc, salvo poi ritornare sui propri passi in seguito alle richieste di rinegoziazione del contratto da parte delle comunità locali. Vi sono poi, come riporta l’Economic Times, dubbi sulla sicurezza del personale cinese, soprattutto per gli attacchi e attentati organizzati dall’Iskp, il principale “rivale” del regime talebano come riporta l’Economic Times.
L’Afghanistan rimane, comunque, un Paese potenzialmente ricco di metalli e minerali essenziali per la transizione energetica e digitale. Un El Dorado da circa 1 trilione di dollari di risorse, secondo le rilevazioni condotte prima dai sovietici e poi dal servizio geologico statunitense (Usgs) durante il ventennio trascorso nel Paese in seguito alla guerra al terrorismo. Un tesoro nella tomba degli imperi mai sfruttato, per ragioni economiche nonché di instabilità politica che ha reso poco attraente l’ingresso di capitale e tecnologia da parte delle aziende minerarie, oltre alle lacune delle politiche di sviluppo occidentali.
Prima del ritorno del regime talebano, lo Usgs e il Dipartimento della Difesa americano avevano condotto per oltre un decennio rilevazioni e analisi per indentificare le risorse minerarie del paese occupato in 24 aree di interesse (Aois).
Nel settembre del 2011, lo Usgs aveva raccolto i risultati nel report “Summaries of Important Areas for Mineral Investment and Production Opportunities of Nonfuel Minerals in Afghanistan”. Secondo i dati raccolti, il Paese custodiva circa 1 milione di tonnellate metriche di terre rare nell’area di carbonite di Khanneshin, nella provincia di Helmand, insieme ad altri importanti depositi di rame e cobalto vicino a Kabul, ferro nelle zone centrali, e appunto stagno, tungsteno e litio nell’area identificata nel quadrante Daykundi.
L’accordo con l’azienda cinese prevedrebbe, inoltre, la processazione in situ del minerale estratto, con la costruzione di una diga per la generazione di energia idroelettrica utile alle attività industriali. L’azienda citata dalle fonti governative afghane, Gochin, tuttavia potrebbe essere la traduzione errata di “Gotion” in riferimento a Gotion Inc, la cui sede centrale sarebbe in California ma rimane legata all’industria cinese in quanto sussidiaria di Gotion High-Tech Co, attiva nello sviluppo e manifattura delle batterie al litio. Tra gli shareholders di Gotion Co si annovera anche il gruppo Volkswagen. La sussidiaria avrebbe inoltre ottenuto incentivi dal Michigan Strategic Fund Board per circa 175 milioni di dollari per la costruzione di un impianto di produzione di componenti per batterie nel comune di Big Rapids. Un finanziamento all’azienda (i legami con la Cina non sono del tutto trasparenti) a cui si opporrebbero i deputati del partito repubblicano locale e su cui è in corso un’indagine del Cfius.
La situazione politica e di sicurezza rende gli investimenti particolarmente rischiosi, in un paese che inoltre non presenta infrastrutture adeguate e snodi logistici per garantire la piena operatività delle attività minerarie. È molto probabile che la mossa cinese sia volta a ottenere risultati politici nel breve termine, saldando un’alleanza con il regime, in attesa che la normalizzazione del contesto politico interno possa favorire, forse nel lungo termine, gli interessi economici di Pechino. Da questo punto di vista, le risorse afghane non sono la panacea per la Cina: si tratta soltanto di un altro potenziale asset a disposizione delle industrie cinese, che possono già contare su feedstock a buon mercato dall’Australia e dal Sud America.
A prescindere dall’effettiva capacità dell’azienda cinese di sviluppare il progetto, la firma del contratto comunque conferirà a Pechino un controllo formale delle risorse del Paese, restringendo ancor di più il perimetro delle riserve sfruttabili a livello globale da parte dei competitor occidentali.