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Il contributo dell’economia circolare al fabbisogno di materie prime dell’Italia

Il Position Paper, con il contributo di Iren e The European House – Ambrosetti, esplora le opportunità e i rischi della transizione green-tech per gli approvvigionamenti italiani. Il riciclo possibile soluzione, ma servono impianti. Serve inoltre stabilire le priorità industriali…

È stato presentato il 24 maggio, a Roma nella sede dell’Ara Pacis, il Position Paper “Materie prime critiche e produzioni industriali italiane. Le opportunità derivanti dall’economia circolare”. Lo studio è stato commissionato da Iren, holding multiservizi che opera nel settore energetico e ambientale, a The European House – Ambrosetti, think tank privato.

L’evento, considerato il tema di interesse nazionale e al centro delle discussioni a livello internazionale (tra cui, al recente G7 tenutosi in Giappone), ha visto la partecipazione del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso insieme ai principali responsabili e promotori del paper, tra cui Luca Dal Fabbro (presidente di Iren), Valerio De Molli (managing partner e Ceo di Ambrosetti) e Danilo Bonato (direttore generale di Erion, società multiconsortile attiva nel settore del riciclo di prodotti elettronici RAEE e materie prime).

Il Position Paper è stato elaborato analizzando e studiando le principali pubblicazioni sul tema delle materie prime critiche elaborate dalla Commissione europea, principalmente tramite il Joint Research Center (JRC), braccio scientifico che a Bruxelles supporta lo sviluppo su basi tecniche della politica europea sulle materie prime, in capo al DG Raw Materials Unit. La pubblicazione del Critical Raw Materials Act e del foresight study a supporto ha permesso l’individuazione di 34 materie prime critiche (CRMs), 17 delle quali considerate ‘strategiche’ per 4 settori fondamentali (energia, mobilità, digitale e aerospazio) che vedranno un aumento significativo della domanda intra-settoriale e in termini assoluti.

La grande rilevanza del paper – che segue un’altra importante pubblicazione di Ambrosetti, in partnership con Erion lo scorso aprile – sta nella quantificazione e analisi dei rischi per il sistema industriale italiano nel comparto materie prime. In particolare, lo sguardo è stato rivolto ai settori tecnologici di punta quali: energie rinnovabili (eolico e solare), mobilità elettrica (batterie), digitale, aerospazio e difesa.

In seguito all’analisi del contesto geopolitico, che vede la Repubblica Popolare Cinese principale fornitore per il 56% delle materie prime critiche individuate dalla Commissione – oltre al dominio di importanti step della catena di fornitura e di presenza attiva nei paesi produttori grazie ad investimenti diretti sui progetti minerari e –  ad una generale risalita dei prezzi per questioni legate alla crescita della domanda e a problemi lungo la supply chain, il paper si focalizza sulle necessità industriali italiane in scenari di ampia penetrazione di alcune tecnologie (come eolico e solare per rispettare i target di decarbonizzazione fissati dall’Ue) e di bassa crescita.

Emerge dallo studio, inoltre, lo scenario di embargo della Cina per le terre rare, più volte ripreso dai media e dagli osservatori come possibile arma di ritorsione geopolitica nei confronti di Ue e Usa: secondo il modello messo in piedi dagli autori, se Pechino decidesse di sospendere le forniture (da cui l’Ue dipende per il 98%, seppur tale dipendenza sia, ad oggi, perlopiù per materiali a basso valore aggiunto considerata la quasi assenza di capacità produttive downstream in Europa, in particolare per i magneti permanenti utilizzati in turbine e motori elettrici) da qui al 2030 sarebbero a rischio 241 GW di eolico (47% del totale previsto) e 33.8 milioni di veicoli elettrici (66%), rendendo di fatto irraggiungibili i target fissati dalla Commissione. La seconda parte dello studio, infatti, è stata dedicata a convertire “[…] per la prima volta in Italia – materie prime e ambiti strategici per l’Ue in tecnologie chiave e relative materie prime strategiche coinvolte, in modo da identificarne i fabbisogni puntuali, attuali e futuri”. Complessivamente, è emerso ancora una volta la netta dipendenza dalla Cina per le materie prime più rilevanti in ogni settore chiave (42% per l’eolico, rame e manganese; 37% per le batterie, grafite e nichel; 42% per data storage, principalmente rame; 47% per l’elettronica avanzata, magnesio e ancora rame).

È chiaro che l’elemento di rischio per gli approvvigionamenti di litio, rame, manganese, nickel cobalto e rame (le materie prime più citate dal rapporto) possa crescere maggiormente, soprattutto nel caso italiano, qualora il sistema-Paese sviluppasse una specializzazione produttiva e industriale in settori come il fotovoltaico, delle batterie al litio e dell’elettronica avanzata (chip) per i servizi di data storage, quest’ultimi che contano per il 90% della domanda UE di semiconduttori. Ad oggi, in Italia, si contano tre gigafactory pianificate (FAAM, Italvolt, Stellantis), 3Sun, il più grandi impianti di produzione di celle fotovoltaiche in Europa (3 GW annuali), di proprietà di Enel a Catania. Sempre in Sicilia STMicroelectronics, azienda di microelettronica e grande fornitore dell’automotive e industria a livello globale, possiede altre capacità industriali.

Nel caso dell’eolico, l’Italia vanta alcune aziende di punta seppur l’analisi del fabbisogno italiano delle 17 materie prime strategiche delle tecnologie chiave si sia attestato intorno alle 2.782 tonnellate nel 2020, con il 44% rappresentano dal rame. Inoltre, ad oggi, la produzione di turbine eoliche e pannelli fotovoltaici rappresenta “quasi la totalità del fabbisogno italiano di materie prime critiche”. È proprio questo il principale tema che emerge dallo studio. Dalla declinazione delle indicazioni della Commissione europea sul tema delle CRMs nel contesto produttivo italiano, emerge come il grado di dipendenza del sistema produttivo italiano da importazioni estere per le materie prime in settori ad alto contenuto tecnologico possa variare fortemente a seconda del settore su cui si deciderà di puntare. Anche in questo caso, Ambrosetti ha tenuto conto di due scenari – High o Low Demand – a seconda che i target di decarbonizzazione europei (REPoweEU) vengano o non vengano rispettati.

In uno scenario di alta penetrazione delle due tecnologie, la domanda italiana potrebbe crescere di 5.7 volte rispetto al 2020 e di 2.7 volte – e questo considerando che lo share di produzione in Italia rimanga invariata nel tempo (uno scenario che potrebbe presto cambiare, secondo chi scrive, sia per la possibile perdita di competitività a vantaggio dei produttori asiatici sia per le priorità di sviluppo industriale). In questo secondo scenario, con un aumento dello share di mercato europeo fino al 10% (GWh di produzione) secondo il position paper il fabbisogno italiano di nickel, rame, terre rare, silicio “aumenterebbe in media del 350% rispetto ai valori del 2040 a specializzazione corrente”.

Dunque, a prescindere dalla scenarizzazione, è evidente che il fabbisogno italiano sia destinato a crescere, chiaramente in misura relativa al grado di specializzazione, dell’innovazione tecnologica e dell’intensità materiale con cui verranno prodotte le tecnologie chiave. Quali strategia adottare, dunque, per affrontare la situazione attuale e futura? Il Position Paper suggerisce tre leve di intervento per mitigare la ‘criticità’ delle materie prime per l’industria italiana: 1) ridurre il consumo; 2) ricorrere a maggiore estrazione domestica; 3) sfruttare l’alternativa riciclo. Tra le tre vie, la terza è quella più percorribile anche nel breve-medio periodo.

Innanzitutto, perché per ridurre il consumo serve individuare materiali sostituti che, nella maggior parte delle tecnologie correnti, non esistono o non consentono le stesse performance tecniche. L’attività mineraria in Italia, al contempo, è bloccata da decenni e seppur vi siano segnali verso l’adozione di un Piano Minerario Nazionale – il ministro Urso ha confermato che il governo sta lavorando ad un disegno di legge per “estrarre e lavorare materie prime critiche nel nostro Paese, nel nostro giardino” – le tempistiche dilatate tra procedure ambientali e costi (oltre all’economicità dei siti, rispetto a quelli più promettenti già in sviluppo) rendono la seconda opzione difficilmente percorribile in termini di risk management nel breve-medio termine. Il riciclo, come suggerisce il titolo, rappresenta una doppia opportunità: contare su input disponibili immediatamente, mitigando i rischi di fornitura, oltre a rappresentare un guadagno in termini di emissioni rispetto alle attività minerarie. Secondo le stime dello studio, entro il 2040 l’economia circolare potrebbe soddisfare fino al 32% del fabbisogno dimestico di materie prime strategiche, per oltre i target europei. Due ostacoli rimangono in questa direzione: i volumi disponibili per il riciclo (il ciclo di vita per molte tecnologie è tra i 15-30 anni) e gli investimenti in “capacità impiantistica disponibile” su cui, tuttavia, ci sono ottime notizie come ha ricordato Dal Fabbro: “Iren eserciterà in questo ambito un ruolo da protagonista, forte di un piano industriale che prevede al 2030 10.5 miliardi di euro di investimenti”.

Vi è poi la questione di “quale” riciclo: upcycling o downcyclin? In breve, riciclare materie prime per il riutilizzo nella manifattura, o riciclare semi-lavorati o prodotti finiti? Questa domanda è cruciale, e la risposta comunque dipenderà dall’esistenza di una domanda finale: serve assicurare una domanda settoriale, industrie midstream e downstream che possano lavorare, trasformare i metalli in materiali adatti all’utilizzo finale. La disponibilità al 2040 di risorse disponibili per il riciclo ci sarà (lo stock di prodotti quali batterie, pannelli, turbine aumenterà di 13 volte rispetto al 2023), ma ci sarà anche un’industria downstream competitiva? A quali prezzi e standard potrà accedere ai materiali riciclati? Per questo servirà al contempo garantire la specializzazione dell’industria italiana in alcune delle tecnologie chiave discusse, per evitare che il virtuoso feedstock del riciclo non sia destinato all’export.

Problema sostanziale che rimane in questo esercizio è quello di determinare se e quanto lo share di produzione (GWh) italiana sarà funzionale alla capacità d’installazione nazionale o europea: ovvero, quanto effettivamente il prodotto finito fabbricato in Italia è impiegato per i target energetici a livello domestico o continentale. E questo pone un dilemma a cui il report non dà risposte, seppur non fosse tra le sue prerogative, e che rappresenta un tema centrale nell’attuale dibattito su transizione energetica e filiere industriali. Il caso del fotovoltaico è esemplificativo: come ha ricordato Alessandro Blasi, special advisor del direttore dell’International Energy Agency (IEA), “da una parte il fotovoltaico rappresenta una star indiscussa dei nuovi impianti elettrici installati ogni anno”, rappresentando una “fetta importante” della produzione di energia rinnovabile. Dall’altra, ricorda Blasi, “un solo Paese, la Cina, detiene un dominio enorme – praticamente un monopolio – nella manifattura di tutte le componentistica chiave lungo la supply chain”. Conciliare, dunque, obiettivi climatici, sicurezza energetica e sviluppo industriale rappresenta un punto interrogativo: “Come sviluppare industrie domestiche con evidenti ritorni in termini di lavoro ed economia e maggior auto-sufficienza, senza compromettere la velocità nello sviluppare nuovi impianti solari critici per la decarbonizzazione e così rispettare i target climatici?”.

Secondo Fatih Birol, intervistato oggi sul Sole 24 Ore, per l’Europa “è inutile sfidare la Cina” sul fotovoltaico, ma sarebbe meglio competere su eolico offshore, elettrolizzatori per produrre idrogeno e pompe di calore. Insomma, accettare il dominio della Cina in alcuni mercati, scommettendo sui rapporti commerciali e le importazioni di tecnologie da installare per gli obiettivi del Green Deal. È evidente che, in questo scenario di parziale resa industriale, il problema delle materie prime critiche sarebbe meno urgente.

In conclusione, se esiste una strategia di mitigazione per gli approvvigionamenti, a prescindere dallo sviluppo industriale italiano nei settori chiave analizzati, il Position Paper ci dice di sì: il riciclo. Tutt’altra storia sarà stabilire come e quanto intervenire per costruire una filiera industriale italiana competitiva, su quali tecnologie puntare e su quali invece desistere. L’opportunità di crescita economica e presidio industriale porterà con sé, comunque, anche nel caso italiano il problema delle materie prime critiche.

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