“L’accordo di Ocrida? I rischi di una ricaduta nella crisi bilaterale c’erano tutti. La Bosnia-Erzegovina? Considerato da molti osservatori come uno Stato fallito. A Vilnius, oltre la priorità Ucraina, non si potrà dimenticare di rilanciare un messaggio assertivo per la distensione e la cooperazione nei Balcani”. Conversazione con il docente di Relazioni internazionali alla Sapienza di Roma, Andrea Carteny
È in una forte azione politica di integrazione dell’Ue che va ritrovata la chiave di volta per decrittare il puzzle balcanico che si sta nuovamente complicando alla voce Serbia e Kosovo, dice a Formiche.net il prof. Andrea Carteny, docente di relazioni internazionali alla Sapienza di Roma. Il punto di caduta, però, non può esimersi dall’analizzare a fondo le mosse avanzate fino ad oggi, come l’accordo di Ocrida, e gli auspici sui prossimi appuntamenti, su tutti il vertice Nato di Vilnius nella consapevolezza che il rischio contagio nell’intera area resta intatto.
Come spiegare gli scontri tra Kosovo e Serbia a poche settimane dall’accordo di Ocrida che sembrava aver risolto le tensioni?
L’applicazione sul terreno degli accordi ha sempre un alto grado di sensitivity, di complessità notevoli, soprattutto nei Balcani. È vero che l’accordo di Ocrida del marzo scorso sembrava aver confermato gli impegni presi dieci anni fa a Bruxelles e dunque messo un punto fermo nel processo di cooperazione tra Prishtina e Belgrado (… e in ottemperanza all’accordo, in effetti, in aprile è stato costituito anche un comitato di monitoraggio congiunto sotto gli auspici dell’Ue). I rischi di una ricaduta nella crisi bilaterale, però, c’erano tutti: l’accordo era stretto solo verbalmente, il presidente serbo Vucic – ma anche il primo ministro kosovaro Kurti – facevano capire che l’accordo poteva significare molto (accettazione “de facto” rispettivamente della sovranità del Kosovo da parte della Serbia e dell’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo settentrionale da parte del governo kosovaro) ma anche che la sua implementazione permaneva prematura, vista l’ancora recente crisi delle targhe e le dimissioni dei funzionari serbi all’interno delle istituzioni kosovare locali. Ecco dunque come le contestate elezioni municipali nel Kosovo del nord hanno detonato di nuovo la “fisicità” del conflitto, facilitato dalla polarizzazione internazionale provocata dall’invasione russa dell’Ucraina.
Perché Pristina ha inteso proseguire sulla strada delle elezioni amministrative nel nord del Kosovo?
Per il governo di Prishtina la scelta ufficiale è stata quella di procedere sulla strada della “legalità”, tentando di far leva su quei (pochissimi) serbi non allineati alla linea di Belgrado, rappresentata quest’ultima dal partito della “Lista serba”. Era chiaro, però, anche alle cancellerie occidentali e alle istituzioni euro-atlantiche, che questo approccio avrebbe colpito sicuramente l’altro principio, quello dell’ “opportunità”, da tenere sempre in grande considerazioni in situazioni così delicate.
Esiste il rischio di contagio delle tensioni nell’intera area che va dall’Albania alla Bosnia–Erzegovina?
I Balcani, in particolare l’area ex jugoslava, sono da sempre al centro di una regione che funziona come uno stagno, all’interno del quale viene lanciato un sasso che provoca cerchi concentrici e propaga onde intorno. La Bosnia-Erzegovina è considerato da molti osservatori come uno Stato “fallito”, non funzionante, proprio per i meccanismi ufficialmente di “garanzia” (di fatto, di “veto”) concessi alle entità costitutive dello Stato, come la Repubblica serba: e il contagio di tensioni in quest’area è già una realtà sul campo per le ragioni endogene dei conflitti (etno-confessionali, di memoria collettiva, dialettica vittime-carnefici) e per quelle esogene sempre più forti, queste ultime, dall’invasione russa in Ucraina, che ha rilanciato il confronto tra “oriente-slavo-ortodosso”, cioè rispettivamente russi in area post sovietica e serbi in ex Jugoslavia, e “occidente-filoaltantico”, dunque ucraini in ex Unione sovietica, kosovari albanesi-non slavi, e bosniaci, entrambi musulmani, in ex Jugoslavia.
Al prossimo vertice Nato di Vilnius il tema dell’allargamento come dovrebbe essere affrontato? Quali i passi, a questo punto diversi e più efficaci, che dovrebbe compiere l’Ue?
Il summit Nato di luglio, non solo per la location, manterrà le priorità della guerra russo-ucraina (armamenti e addestramento per Kiyev, sicurezza militare per membri Nato dell’area, nuove adesioni scandinave perfezionate e non, richieste di adesione di stati post-sovietici) ma non potrà dimenticare di rilanciare un messaggio assertivo per la distensione e la cooperazione nei Balcani. La strada dell’integrazione regionale nelle strutture comunitarie – come sottolineato dal ministro Tajani nella conferenza di Trieste di fine gennaio – è forse l’unica strada ad oggi percorribile contestualmente per Prishtina e Belgrado: anche dal punto di vista della sicurezza e della stabilità, una forte azione politica di integrazione dell’Ue per questa regione è forse la migliore strategia e strumento da mettere in campo anche per gli interessi dell’Alleanza atlantica.
I big players esterni usano o fomentano le tensioni serbo-kosovare per distrarre l’attenzione della guerra in Ucraina: ritiene verosimile questa ipotesi circolata nelle ultime ore? E per quali ragioni?
È normale ci si interessi di nuovi scontri, come quelli in Kosovo di questi giorni, piuttosto che di quelli che continuano ormai da mesi senza prospettiva di cessate il fuoco, come nella guerra in Ucraina. Qui però la percezione aumenta per le vittime (fortunatamente solo feriti), che sono soldati italiani. Di fatto, se i manifestanti serbi non avessero usato molotov ed ordigni esplosivi contro i nostri militari la questione non sarebbe arrivata sulle prime pagine dei media come un allarme da affrontare con urgenza dalle autorità governative nazionali ed europee. È forse anche da considerare che più che per distrazione, l’allargamento del fronte dei conflitti servirebbe a dimostrare la tesi di chi parla di uno scontro globale, causato dall’espansione sconsiderata delle strutture Nato a discapito delle civiltà e popolazioni orientali, slavo-ortodosse. Anche per questo motivo una forte e rapida azione occidentale dovrebbe quasi “costringere” i governi dell’area a compromessi stabili ed efficaci.