Il paese asiatico, giovane democrazia stretta nella morsa tra Cina e Russia, vuole costruirsi un futuro di sviluppo a partire dalle sue ricchezze geologiche. Le grandi multinazionali occidentali tendono una mano, ma serviranno maggiori garanzie su dati minerari, investimenti e stabilità politica
Al Mongolia Economic Forum, tenutosi all’inizio di luglio di quest’anno, tra i temi più discussi è stato il potenziale, ancora sopito, del territorio mongolo in termini di risorse minerarie. E sono stati gli elementi delle terre rare (Ree), gruppo di metalli essenziale per motori elettrici, turbine eoliche e dispositivi militari, al centro del dibattito e ritenuti una potenziale fonte di sviluppo per la Mongolia e principale asset per attrarre investimenti stranieri.
Megan Clark, presidente del comitato consultivo dell’Agenzia spaziale australiana e direttore non esecutivo indipendente del grande colosso minerario Rio Tinto, che ha partecipato alla discussione ha affermato come il governo mongolo dovrebbe focalizzarsi su questa industria, in particolare nelle fasi di estrazione e lavorazione di questi elementi. Si tratterebbe di un chiaro segnale nell’ottica di ridurre lo strapotere commerciale e tecnologico attualmente goduto dalla Cina, che ne estrae circa il 60% dei concentrati e domina raffinazione (oltre l’85%) e la fabbricazione di leghe e metalli (90%). E non è un caso che la maggior parte di questa concentrazione industriale sia localizzata nella Mongolia Interna, regione autonoma della Repubblica popolare. Una ricchezza geologica di una regione che ora fa gola al mondo occidentale. L’ufficio geologico nazionale della Mongolia ha registrato riserve di 3,1 milioni di tonnellate di minerali di terre rare a luglio 2022.
“La situazione mondiale sta cambiando rapidamente. È in atto un nuovo tipo di globalizzazione e l’attenzione si sta spostando verso l’Asia”. Sono le parole che ha pronunciato, nel suo discorso a seguito del keynote speech del primo ministro della Mongolia, Dominic Barton, Chairman of the Board of Directors della multinazionale anglosassone. Barton ha sottolineato che in questa situazione ci sono vantaggi e grandi opportunità per la Mongolia, soprattutto per le enormi riserve energetiche e minerarie del paese ancora non sfruttate, considerando che solo il 4% del territorio nazionale è sottoposto a licenze esplorative. Ed è per questo che Rio Tinto – il secondo gruppo minerario per capitalizzazione borsistica (circa 130 miliardi di dollari) dietro a Bhp Group, davanti a Glencore e Vale a livello mondiale – è in Mongolia.
Ma non sono solo le terre rare a catturare l’interesse e l’immaginazione dei paesi ed investitori esteri. Sono circa 61,4 milioni le tonnellate di rame custodite nel sottosuolo mongolo. E proprio Rio Tinto ha annunciato che entro il 2030 finalizzerà la costruzione di una miniera di rame nel sito di Oyu Tolgoi, adiacente al confine meridionale con la Cina, con una capacità produttiva di circa 500.000 tonnellate all’anno, tanto basta per costruire 6 milioni di veicoli elettrici. Il sito diverrebbe, così, il quarto più grande al mondo dopo le miniere a cielo aperto operative tra Cile, Perù e Messico. Dal 2010, anno in cui il colosso minerario ha iniziato le attività esplorative non senza difficoltà nei rapporti con le autorità locali, sono stati investiti più di 15 miliardi di dollari: un esempio pratico di quanto sia complesso portare sul mercato queste risorse tra tempistiche dilatate e capitale finanziario. “Per raggiungere i nostri obiettivi di net zero” ha ricordato Barton, citando l’elettrificazione massiccia, “il mondo richiederà più di 700 milioni di tonnellate di rame nei prossimi 25 anni”.
Il governo mongolo parteciperà al progetto al 34%, una quota obbligata considerando che si tratterà del più grande investimento nella storia del paese. Tradizionalmente votata all’agricoltura e alla pastorizia, solo di recente la Mongolia ha iniziato a sfruttare le sue grandi riserve minerarie. Il paese asiatico ha circa 3.000 depositi e conta circa 50 tipologie di materie prime, con grandi giacimenti di carbone, rame, oro, ferro, petrolio, tungsteno, uranio, zinco e terre rare. L’Autorità per le Risorse Minerarie e il Petrolio della Mongolia è l’ente governativo responsabile di sostenere lo sviluppo della politica statale in materia di estrazione mineraria e petrolifera e di amministrare le attività legate alle risorse geologiche del Paese. Secondo il think tank specializzato Extractive Industries Transparency (Eiti), nel 2021 l’attività mineraria ha rappresentato circa un quarto del Pil mongolo e il 29,6% delle entrate di bilancio.
La maggior parte delle società minerarie e di produzione in Mongolia è di proprietà dello Stato, con alcune in joint venture tra società internazionali e il governo della Mongolia. Per esempio il gruppo francese Orano, multinazionale dell’energia nucleare con all’attivo cinque siti in Francia, sta sviluppando la prima miniera di uranio in Mongolia. Non è un caso che il Presidente francese, Emmanuel Macron, abbia di recente firmato un accordo con il governo nell’ottica di assicurare alle sue industrie il combustibile nucleare. O degli stessi Stati Uniti, che lo scorso 27 giugno hanno formalizzato un memorandum of understanding per collaborare sui materiali critici, tra cui appunto le terre rare. L’Unione Europea, invece, attraverso la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e in partnership con l’Australia, vuole aiutare le autorità locali per potenziare i database geologici del paese. Tre esempi che esemplificano tre approcci differenti, ma tutti votati ad un solo obiettivo: diversificare le forniture e provare (laddove possibile) a contenere le ambizioni cinesi.
L’approccio verso la Cina sta cambiando anche e soprattutto nel settore delle materie prime critiche. Lo dimostrano i recenti interventi del governo australiano per tutelare i suoi asset minerari, le partnership bilaterale tra UE e Cile, USA e Australia e in generale il coordinamento tra i paesi del G7 per trovare nuovi partner in uno sforzo al de-risking delle filiere.
Ed è proprio l’obiettivo del governo di Luvsannamsrain Oyun-Erdene quello di utilizzare la criticità delle materie prime per l’Occidente come trampolino di sviluppo del paese, approfittando della decarbonizzazione e dell’ingente domanda di materie prime e materiali critici da qui al 2050.
In questo, la partecipazione del governo e della sua politica ambientale, dei ministeri e delle agenzie governative competenti, nonché il coinvolgimento del pubblico saranno essenziali. Aspetto principale è che la Mongolia dovrà determinare i propri obiettivi in conformità con le tendenze di sviluppo dell’industria mondiale, formando personale e risorse umane nazionali, a partire da scienziati e ricercatori in questo settore. Oltre ad assicurare gli investitori stranieri e occidentali sulla trasparenza del suo sistema politico e di una democrazia nascente ma ancora acerba.
Nonostante una diplomazia e una politica estera pragmatica, il problema con questa iniziativa rimane la posizione geografica. Incuneata tra la Russia a nord e la Cina a sud, la Mongolia, priva di sbocchi sul mare, già si trova ad affrontare limitazioni sulle rotte di esportazione del carbone, un fattore che potrebbe influire anche sulla sua capacità di trasportare minerali strategici. Nonostante il forte interesse per il carbone da parte di paesi come l’India, la Corea del Sud, il Giappone e l’Europa, è possibile che la Cina rimarrà il suo principale mercato a causa dell’accesso limitato. Il governo ha costruito e migliorato le infrastrutture per collegare meglio il Paese, ma rimangono collegamenti ferroviari industriali diretti verso soprattutto la Cina e la Russia.
Dunque, la capacità di attrarre investimenti dall’Occidente rimarrà un prerequisito fondamentale per governo in un’ottica di hedging nei confronti di Pechino e Mosca, che rimangono comunque due partner commerciali fondamentali: la Cina conta per l’84% delle esportazioni mongole, principalmente rame e carbone, mentre la Russia conta per il 30%, soprattutto prodotti petroliferi.