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Metalli critici, un quadro complesso e meno roseo nel report Irena

L’Agenzia con sede ad Abu Dhabi ha pubblicato un denso rapporto sulle materie prime critiche. Il quadro è complesso: dalla concentrazione di estrazione e raffinazione, ai rischi geopolitici, fino ai costi ambientali. La transizione rischia di rallentare se non si guarda al quadro sistemico

Il giorno seguente dopo la pubblicazione del primo resoconto di mercato dell’International Energy Agency (Iea) dedicato alle materie prime critiche, è stata la volta del report dell’International Renewable Energy Agency (Irena).

Nel suo studio intitolato Geopolitics of the Energy Transition: Critical Minerals, Irena restituisce un quadro più complesso e meno roseo di quanto sia emerso, invece, dal report Iea. Il quale, va sottolineato, si è concentrato sugli aspetti di mercato, ponderando le novità del 2022 (in termini di output, investimenti) rispetto alla situazione fotografata nel dettaglio nel 2021 e, più in generale, nel contesto della scenarizzazione elaborata al 2030 e al 2050 per gli obiettivi di decarbonizzazione.

I materiali critici sono oggi al centro di sforzi internazionali, pubblici e privati, per affrontare quello che è, al momento, il rischio di passare dalla dipendenza dai combustibili fossili verso un sistema energetico low-carbon materialmente intensivo. Per gli scettici, si tratta dell’elemento di maggior criticità per un’elettrificazione del settore energetico e della mobilità su scala globale.

Ma proprio nella natura differente della dipendenza, come sottolineano gli analisti Irena, che si sostanzia la differenza: i metalli critici sono fondamentalmente diversi da petrolio e gas in quanto stock di beni che vengono scambiati e consumati per produrre tecnologie che, una volta installate o impiegate (eolico, fotovoltaico, EV), possono continuare ad operare anche se la supply chain ne venisse in seguito impattata. I rischi associati a queste possibili disruption – come sperimentato con la pandemia o la guerra in Ucraina – sono connessi non tanto alla sicurezza energetica (con la seconda che ha influito notevolmente sul rialzo dei prezzi di greggio e gas naturale) ma piuttosto al rallentamento della transizione energetica. L’indisponibilità di materie prime – come litio, cobalto, nickel, terre rare, rame, manganese, fosforo e palladio – può infatti impattare le attività manifatturiere, soprattutto in un contesto in cui la capacità estrattiva e di raffinazione è ancora limitata rispetto alla domanda prevista nei prossimi decenni.

La differenza è anche evidente sul peso nel commercio internazionale: nel 2021 l’esportazione di gas e petrolio, insieme, generava più di 1.2 trilioni di dollari, mentre rame, litio, nichel, cobalto e terre rare rappresentavano poco meno di 97 miliardi (con più del 90% raccolto dallo scambio di rame). Una differenza abissale, che potrà diminuire con la crescita strutturale di questi mercati, ma che non potrà compensare tutte le perdite di entrate e tasse generate dai combustibili fossili. Un tema rilevante per la stabilità socio-economica dei Paesi coinvolti.

In generale, non sono tuttavia segnalati rischi legati alla scarsità di riserve, piuttosto abbondanti sulla crosta terrestre e che non riflettono, di per sé, una concentrazione produttiva. Per esempio, la Bolivia dispone di 21 milioni di tonnellate di riserve di litio (la più grande disponibilità ad oggi registrata), ma ne produce meno dell’1%. Non solo: la corsa all’approvvigionamento spingerà, soprattutto per il progressivo declino della qualità dei depositi terrestri (in breve, la quantità di materiali prodotti per tonnellata estratta, una ratio che per molti minerali è molto bassa e che per nickel, litio, manganese e rame potrebbe generare oltre 1 trilione di tonnellate di materiali rocciosi di scarto entro il 2050), a sfruttare le risorse dell’Artico o dei fondali oceanici, con effetti sugli ecosistemi incerti ma preoccupanti, e in un futuro che appare ancora lontano per costi e assenza di tecnologie adeguate ad esplorare le risorse spaziali. La criticità dei materiali rimane ancora soggettiva e legata all’osservatore, ma punto in comune tra molti dei paesi consumatori (come Ue, Usa, Corea e Giappone) rimane la preoccupazione nei confronti di un’industria oligopolistica che potrebbe sfruttare – non senza difficoltà per via dell’eterogeneità di questi mercati e l’assenza, in alcuni casi, di compagnie minerarie nazionali – eventuali cartelli per determinare i prezzi e, dunque, lo sviluppo a valle di attività a maggior valore aggiunto (dal litio alle batterie per intenderci).

Il report individua ed esamina sei macro-rischi geopolitici che potrebbero manifestarsi nei prossimi anni e decenni: shock esterni (naturali, pandemie, guerre e incidenti minerari); nazionalismo delle risorse (quell’insieme di iniziative politiche e governative per controllare il mercato a proprio favore, come la regolamentazione delle royalties, l’espropriazione delle licenze minerarie concesse alle multinazionali, il controllo sugli investimenti esteri); restrizioni alle esportazioni (sotto forma di embarghi, quote, tasse e licenze), che sono aumentate di 5 volte tra il 2009 e il 2020, con cobalto e nichel tra le materie prime più soggette sui volumi scambiati a livello globale (84 e 68%); cartelli minerari (coordinamento per produzione, prezzi e allocazioni delle quote di mercato); instabilità politico-sociale nei paesi produttori (dovuti alle esternalità negative sull’ambiente, alle disuguaglianze di reddito o all’insorgenza di conflitti armati per il controllo delle risorse); infine, manipolazioni di mercato in un’industria che rimane di dimensioni ridotte, con poca liquidità e trasparenza (solo nel 2021 si è iniziato il trading del litio al London Stock Exchange, la più grande piattaforma per le commodities) su formazione dei prezzi e dei contratti, e dunque suscettibile a speculazioni.

L’industria dei materiali critici rimane dominata, oltre che da pochi paesi, da poche aziende: per esempio, le prime cinque compagnie minerarie per output di produzione controllano il 61% del litio e il 56% del cobalto. Percentuali che potrebbero salire se si considerasse, nei paesi dove avviene l’estrazione, la nazionalità delle imprese che operano effettivamente nel territorio. E qui, naturalmente, gioca un ruolo preponderante la Cina, che rimane (al netto delle ricostruzioni mainstream) uno dei principali paesi importatori per la trasformazione dei minerali in metalli battery grade e così utili alla manifattura di catodi per batterie, leghe per magneti e materiali per i pannelli fotovoltaici. La Cina, infatti, controlla più del 50% della raffinazione di grafite, cobalto, litio, manganese e il 100% del disprosio.

Uno sguardo, infatti, alla catena del valore delle batterie elettriche al 2025 ci dimostra dove risieda, in termini di crescita economica e sviluppo industriale, l’opportunità dalle miniere ai mercati: 11 miliardi di dollari l’estrazione di nichel, litio e cobalto, 271 miliardi la produzione di materiali precursori per la produzione di celle per batterie (387 miliardi) fino ai 7 trilioni di dollari, il valore di mercato previsto al 2025 per i veicoli elettrici (EV). Estrazione e raffinazione, dunque, conterebbero solo per l’1.1% di un’indotto che, tuttavia, non sarebbe possibile senza l’accesso a minerali e metalli. In questo senso, il rapporto tra paesi produttori e consumatori può infatti riassumersi nel diverso valore che viene associato agli estremi della filiera: da una parte i paesi industrializzati vedono con preoccupazione le vulnerabilità e sicurezza delle forniture di materie prime, dall’altra i paesi non-OECD (in particolare, quelli ricchi di riserve) guardano all’opportunità di costruire un’industria domestica delle batterie e spezzare, così, “la maledizione delle risorse”. Favorire il dialogo tra questi interessi interstatali divergenti (e frastagliati al loro interno, tra governi, aziende e società civile) sarà un punto cruciale.

E’ in questo nuovo contesto che si pone la questione del confronto con i paesi in via di sviluppo (esclusa la Cina), nei quali sono concentrate le riserve di rame (46%), litio (45%), cobalto (67%), nichel (34%), terre rare (19%), manganese (63%) e metalli del gruppo del platino (PGMs, con il 95%). E’ un tema cruciale, tanto per lo sviluppo sostenibile e l’Agenda 2030 dell’ONU, quanto in un’ottica geopolitica: ricostruire le relazioni bilaterali e multilaterali tra l’Occidente e il resto del mondo, soprattutto nell’ottica di non lasciare questi paesi alla mercè di Russia e Cina, rappresenta un driver fondamentale per assicurare un’accesso equo e scevro da neo-colonialismi alle materie prime. Tema che tocca necessariamente comunità locali ambiente. Quasi 45 milioni di persone, tra 80 paesi, sono coinvolte in attività di estrazione artigianale, una circa cresciuta di sette volte dal 1990, mentre circa il 54% dei depositi sfruttabili sono collocati in vicinanza di comunità e terre indigene, sottolineando quindi la necessità di un più attivo coinvolgimento per uno sviluppo inclusivo (al fine di evitare l’insorgere di proteste e scioperi che hanno in alcuni casi bloccato le attività produttive). Oltre la metà dei depositi di rame e litio sono localizzati in aree a forte rischio e stress idrico, pensiamo al deserto di Atacama che si espande tra Cile, Bolivia e Argentina nel cosiddetto ‘Triangolo del Litio”.

Serve dunque un approccio sistemico per affrontare il tema e minimizzare, dunque, i rischi geopolitici e socio-ambientali associati all’estrazione, produzione e commercio dei materiali critici. “Il rischio di rottura delle filiere è meno legato alla sicurezza energetica ma piuttosto al potenziale rallentamento della transizione energetica, che deve essere evitato” ha commentato Francesco La Camera, direttore dell’Irena. “Il mio messaggio è che urge rafforzare la collaborazione sui materiali critici per minimizzare i rischi legati alla concentrazione dell’industria e accelerare il dispiegamento delle rinnovabili per limitare l’aumento delle temperature oltre 1.5C”.

Il che significa, nello scenario elaborato da Irena, passare dai 3.300 GWh di potenza installata nel 2022 a 33.000 GWh nel 2050, con il 90% di veicoli elettrici e il 14% ad idrogeno nella flotta automotive a metà secolo. Uno sforzo gigantesco, che porterà la nostra società a passare da un’economia basata sui combustibili fossili ad un’economia, auspicabilmente circolare, costruita sulle proprietà, ad oggi insostituibili, dei metalli rari.


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