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Cina, serve una svolta o addio investimenti. L’allarme di Caixin

Persino il principale quotidiano economico cinese evidenzia che alla radice dei mali ci sono scelte politiche errate. Tra crisi multiple sul fronte interno e perdita di attrattività agli occhi degli investitori esteri, la prospettiva del Dragone è sempre più cupa – ma è difficile che la dirigenza sempre più autocratica voglia e possa cambiare passo

Lunedì le autorità cinesi hanno annunciato che estenderanno fino al 2027 il regime di tassazione agevolato per gli stranieri che lavorano nel Paese. È l’ultima di una serie di misure straordinarie che Pechino ha appena messo in campo per stimolare l’economia, tra cui spiccano un fondo da 146 miliardi di dollari per incoraggiare investimenti e consumi e azioni per sostenere il mercato immobiliare. Ma nemmeno l’annuncio di questo pacchetto-monstre ha rassicurato gli investitori, consci del fatto che negli ultimi mesi il Dragone sta vacillando come mai ha fatto in quarant’anni di crescita meteorica.

Ci sono una serie di motivi che hanno portato il presidente statunitense Joe Biden a definire l’economia cinese una “bomba a orologeria”. La disoccupazione è in aumento (specie quella giovanile, di cui Pechino ha smesso di pubblicare i dati); la deflazione incombe; la domanda rimane anemica dopo il periodo asfissiante delle misure zero-Covid e la crisi immobiliare si sta gonfiando (al suo ritorno in borsa il gigante del mattone Evergrande ha perso l’80% del valore in poche ore).

Contestualmente, il commercio con l’estero e gli investimenti dall’estero sono in rapido declino. Come ha riportato la segretaria al Commercio Usa Gina Raimondo, che è in Cina per una tre giorni di dialogo con le autorità cinesi, le aziende statunitensi ritengono il mercato cinese sempre meno attraente per gli investimenti perché sempre più rischioso. “Ci sono le preoccupazioni tradizionali con cui sono abituati a confrontarsi”, ha aggiunto, “e poi c’è un’intera nuova serie di preoccupazioni, la cui somma fa sì che la Cina sia troppo rischiosa perché loro investano”.

Il riferimento di Raimondo riguarda l’aumento di pressione sulle realtà straniere da parte delle autorità cinesi, una delle cause della fuga degli investitori e delle misure di de-risking messe in campo dalle aziende per ridurre l’esposizione al mercato asiatico. E Pechino è fin troppo conscia del fatto che la spinta a diversificare e l’assenza di investimenti esteri minaccia di far deragliare le sue ambizioni economiche. Da qui la detassazione per i lavoratori stranieri, ma anche i tappeti rossi stesi dalla propaganda cinese agli investitori occidentali – come Elon Musk – che visitano la Cina, promettono di approfondire i legami e si oppongono al disaccoppiamento.

Vista la situazione, Caixin (il principale quotidiano economico cinese) ci ha tenuto a criticare le decisioni del Partito comunista cinese – cosa non scontata in un Paese dove generalmente non è permesso farlo, specie nel campo dell’informazione. In un editoriale la testata ha sostenuto che a ostacolare gli investimenti stranieri è l’isolazionismo protratto del governo cinese, tendenza che definisce “preoccupante” e “decisamente dannosa per […] perseguire uno sviluppo di alta qualità”. E proprio qui c’è il nocciolo della questione: i mali economici della Cina hanno una radice politica.

I sintomi di crisi che Pechino tenta di tamponare sono causati dai “fallimenti più ampi” della politica economica cinese, che stanno peggiorando con l’accentramento del potere da parte del presidente Xi Jinping, scrive l’Economist. Da una parte, gli stessi tecnocrati che hanno risposto alle crisi con misure di stimolo lo hanno fatto accumulando pile di debiti pubblici e privati e alimentando le bolle – come quella immobiliare, appunto. Dall’altra la spavalderia della Cina in politica estera e la sua politica industriale mercantilista hanno aggravato il conflitto economico con gli Usa e spinto i Paesi occidentali a considerare misure di de-risking.

Per il quotidiano britannico, i fallimenti della politica cinese in campo economico non riflettono tanto l’attenzione di Xi alla sicurezza nazionale (anche a scapito della crescita) quanto un semplice processo decisionale sbagliato. Le misure degli ultimi anni come gli interventi a gamba tesa sulle aziende tech “hanno coinciso con l’accentramento del potere di Xi e la sua sostituzione di tecnocrati con lealisti nelle posizioni di vertice. Un tempo la Cina tollerava il dibattito sulla sua economia, ma oggi induce gli analisti a un falso ottimismo”, dimostrato dalla scelta di non pubblicare i dati sulla disoccupazione o sul consumo.

“Ai vertici del governo ci sono ancora molti talenti, ma è ingenuo aspettarsi che una burocrazia produca analisi razionali o idee inventive quando il messaggio dall’alto è che la lealtà conta più di tutto”, conclude la rivista. E il fatto che la linea sia dettata dall’alto – la naturale conseguenza è che un cambio di rotta minerebbe l’autorità di chi detta la linea – significa che i problemi persisteranno e possono addirittura peggiorare, dato che l’autocrazia cinese si troverà a fronteggiare un Occidente sempre più ostile mentre la sua popolazione invecchia e le basi della sua crescita si rivelano più fragili del previsto.


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