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Ecco cosa c’è dietro alla gelata dell’economia cinese

Xi Jinping

Pesante rallentamento della crescita dalle parti di Pechino, che combatte con il crollo dei consumi, le esportazioni in calo, un prosciugamento degli investimenti dall’estero, disoccupazione giovanile e una perma-crisi nel settore immobiliare. Ecco perché gli investitori non si fidano più di Xi

La battuta d’arresto dell’economia cinese è così marcata da aver spaventato anche gli investitori esteri. Secondo i dati pubblicati lunedì, Pechino ha segnato un più 0,8% nel secondo trimestre, numero che impallidisce rispetto al 2,2% del periodo gennaio-marzo. Su base annua, la crescita del Pil è stata del 6,3%; un dato solo apparentemente incoraggiante, visto che fotografa l’emersione dell’economia cinese dal periodo asfissiante delle restrizioni “zero Covid”. E lo yuan continua a scivolare rispetto al dollaro.

A completare il quadro ci si mettono anche i consumi interni in calo costante, al punto da rasentare la deflazione, e le esportazioni deboli, che risentono del calo di consumi a livello globale. Aggiungendo anche un settore immobiliare in profonda crisi (ieri il colosso del mattone Evergrande ha registrato una perdita di 81 miliardi di dollari in due anni) e un tasso di disoccupazione giovanile schizzato al 21% nel mese di giugno (un record negativo che si colloca nel contesto di un calo demografico), ci sono tutti i presupposti per sospettare che il rallentamento della Cina possa non essere transitorio.

Nella giornata di lunedì, man mano che gli operatori hanno assorbito questi dati, le borse hanno fatto trapelare la loro preoccupazione che un’eventuale crisi cinese possa contagiare i mercati globali. I titoli europei hanno seguito le controparti asiatiche al ribasso nelle contrattazioni mattutine, con un picco negativo dalle parti della Francia, fortemente esposta all’economia cinese attraverso il settore dei beni di lusso. Anche le borse statunitensi sono scese in mattinata, nonostante le parole incoraggianti della segretaria al Tesoro Janet Yellen sul fatto che non prevede una recessione, per poi chiudere comunque in positivo.

È evidente il cambio nel sentimento degli investitori, generalmente ottimisti sulle prospettive di crescita cinesi da quando il governo di Xi Jinping ha abbandonato la politica “zero Covid”. I numeri di lunedì sembrano indicare che la ripresa post-pandemica del gigante asiatico abbia già perso slancio. Sui consumi interni pesa la debolezza della fiducia di consumatori e delle imprese, ancora scottati dalle pesanti restrizioni imposte dal Partito-Stato. Mentre le seconde chiedono a gran voce stimoli da parte del governo, i primi tendono a depositare una parte sempre più consistente dei propri guadagni.

Anche sul fronte estero non va benissimo, nonostante i tentativi della leadership cinese di attirare nuovi investimenti. Pechino ha dichiarato che il 2023 è “l’anno dell’investire in Cina”, e alla “Davos estiva” di fine giugno a Tianjin il premier Li Quiang ha evidenziato “l’impegno della Cina ad aprirsi”. Il motivo è evidente: le misure draconiane di Xi, come la nuovissima legge anti spionaggio del Partito-Stato e le minacce di interrompere le forniture di materie prime, uniti ai toni sempre più accesi nel confronto con gli Stati uniti, stanno prosciugando gli investimenti esteri in Cina – crollati dai 100 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2022 a 20 miliardi nel Q1 2023.

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