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Microchip, le conseguenze della guerra tech Usa-Cina secondo Morris Chang

Il fondatore di TSMC è tornato a parlare in pubblico durante un evento newyorkese. La preoccupazione è che il confronto tra i due giganti mondiali possa frenare il progresso dell’industria dei semiconduttori. Ma c’è di più, e riguarda proprio il futuro della sua creatura

Quando parla il mondo dovrebbe ascoltare in rigoroso silenzio e apprendere il più possibile. Non solo il mondo dell’industria che ha contribuito a plasmare, ma quello politico nonché imprenditoriale che guarda con apprensione su altri fronti geopolitici, ormai caldissimi, che segnalano come le frizioni tra Washington e Pechino siano la cornice di smottamenti sismici dell’ordine internazionale.

Un ordine economico e politico che ha favorito l’emergere proprio di Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (TSMC), quando Morris Chang intuì che i processi di globalizzazione e integrazione regionale (specialmente nell’hub manifatturiero dell’elettronica avanzata in Asia orientale e meridionale), con la progressiva specializzazione dell’industria dei chip, avrebbero conferito al business model di TSMC (fonderia per terze parti) un vantaggio competitivo impareggiabile.

L’ascesa del colosso dei chip taiwanese, fondato nel 1987 (all’apice della Guerra fredda, ma già in un contesto regionale che vedeva l’emergere dei paesi asiatici, come Giappone, Corea e appunto Taiwan, come futuri leader dell’elettronica) è stata infatti cruciale per rilanciare l’industria in un periodo caratterizzato dalle tensioni commerciali tra Washington e Tokio e da una stagnazione dovuta ai cicli economici che caratterizzano da sempre il settore dell’elettronica.

In un MIT Talk nella giornata di martedì, durante il suo tour americano, Chang ha elencato come il successo della sua creatura sia stato possibile grazie ad alcune condizioni abilitanti presenti a Taiwan: un ecosistema unico, capace di fornire manodopera altamente specializzata e qualificata (tecnici e ingegneri), la continuità delle mansioni (poco turnover), una concentrazione geografica delle attività manifatturiere e la “teoria della curva di apprendimento” con guadagni incrementali e riduzione dei costi di produzione. Si tratta di un ciclo che anche gli Stati Uniti hanno sperimentato nei primi e grandiosi decenni della Silicon Valley a cavallo tra gli anni 50’ e 60’ quando le attività di ricerca, design e manifattura erano una accanto all’altra. Chang ha infatti ricordato che in un futuro non lontano paesi come il Vietnam, l’Indonesia e l’India potranno diventare hub produttivi importanti.

E poi, chiaramente, la necessità di affrontare i crescenti costi per stare al passo con la frontiera tecnologica. Per farlo, TSMC ha puntato a costruire la fiducia dei suoi clienti, dal momento che il suo business model avrebbe puntato a fabbricare chip per conto di aziende in diretta competizione tra loro (pensiamo a Qualcomm e Nvidia) con la condivisione di informazioni sensibili. In secondo luogo, TSMC ha investito sulla frontiera tecnologica, sui nodi avanzati e approfittando delle difficoltà di competitor, come Samsung e Intel, che ancora disegnavano e fabbricavano chip in un modello interato (IDM). La scalabilità dei chip più avanzati sarebbe stata impossibile se l’industria non si fosse reiventata in un’ottica di specializzazione regionale, e molte delle aziende che ancora oggi popolano il settore – come le americane Intel e Texas Instruments – sarebbero scomparse di fronte alla feroce competizione se non avessero abbracciato il trend degli anni Novanta e Duemila. E allo stesso tempo, oggi gli Stati Uniti non godrebbero della leadership del design, nel software EDA e nei macchinari litografici – chokepoint del mercato che il governo americano utilizza per strozzare l’ascesa tecnologica di Pechino – se TSMC e altre fonderie taiwanesi non avessero scommesso miliardi di dollari in investimenti per diventare le fabbriche del futuro.

Oggi quel mondo, come ha di recente affermato lo stesso Chang, è finito e l’unica priorità per i policymakers che guardano all’industria dei semiconduttori è una sola. “Senza sicurezza nazionale perderemmo tutto, tutto quello a cui diamo valore” ha detto Chang. Riflettendo sulla geopolitica della produzione dei chip, Chang ritiene che la manifattura sia una delle aree dove Stati Uniti e Cina stanno competendo in termini industriali e dove evidentemente non vi è un gap così marcato. Quel divario è invece evidente nei confronti di Taiwan, il cui futuro rimane incerto rispetto alle intenzioni politiche di Pechino. “Se possiamo, con tutto quello che è nelle nostre possibilità, evitiamo una Guerra fredda”.

Ma è chiaro che le relazioni sino-americane non potranno settarsi come furono quelle tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Per tutta la durata del confronto bipolare, i canali diplomatici rimasero sempre aperti, dettati soprattutto dalla necessità di evitare la guerra nucleare mentre i flussi economici e tecnologici erano pressoché nulli. L’assenza di una forte interdipendenza in questo senso rendeva il confronto binario, più comprensibile e soprattutto cifrato dalla ‘teoria dei giochi’ che rimase fino alla fine un perfetto schema per cercare un equilibrio e, infine, una convivenza se non pacifica quanto meno verso la de-escalation.

Oggi non esiste, al momento, nulla di simile. Anzi, i mezzi e fini della competizione tendono a fondersi: l’interdipendenza tecnologica, dai semiconduttori alle materie prime critiche, rende molto più complesso raggiungere questo equilibrio perché la propria sicurezza è anche, in parte, la necessità di assicurarsi che l’avversario non raggiunga la propria autonomia o, peggio, effettui il sorpasso. E’ questo il paradosso dell’interdipendenza, perché più si cerca di ridurre le proprie vulnerabilità, più si incentiva l’altro attore a sfruttarle prima che sia troppo tardi. E’ chiaro che il calcolo delle conseguenze sulle supply chain globali è spesso omesso.

Su questo aspetto Chang, durante l’incontro che si è svolto presso l’Asian Society di New York giovedì, ha le idee chiare. “Credo che il decoupling alla fine rallenterà tutti. Mi sembra evidente che (da lato degli Stati Uniti, ndr) l’obiettivo sia quello di rallentare la Cina, ma [il rallentamento] sta avvenendo”. Le tensioni tra Washington e Cina stanno entrando in un sentiero pericoloso, un aspetto che “riesce a tenermi sveglio la notte” ha commentato. Chang ha anche citato il discusso libro del professore di Harvard, Graham Allison, uscito nel 2019 dal titolo Destined for War e che riprende 18 casi storici in cui una potenza dominante (oggi, gli Stati Uniti) si scontra con una potenza in ascesa (la Cina) con il risultato che alla fine la competizione si risolve in un conflitto militare per dodici volte.

L’embargo sui chip varato dagli Stati Uniti con le nuove restrizioni all’export di tecnologia americana (macchinari EUV, DUV e chip avanzati per l’IA) potrà ottenere i risultati attesi – bloccare o arginare la rincorsa della Cina sui semiconduttori e le applicazioni dual-use – oppure avere conseguenze indesiderate, come stimolare l’ecosistema nazionale o spingere per il ricorso all’annessione militare di Taiwan. Difficile, tuttavia, immaginare quest’ultimo scenario come conseguenza dell’embargo. Secondo un ex-manager di TSMC, Burn Li, intervistato da Bloomberg, le nuove restrizioni statunitensi non avranno effetto: SMIC, l’azienda cinese leader nella fabbricazione di chip a livello nazionale, potrà fabbricare chip a 5 nanometri utilizzando i macchinari DUV che ASML ha spedito negli ultimi semestri.

La corsa alle fonderie avanzate, per ragioni di sicurezza e prestigio tecnologico, è un trend che ha comunque delle conseguenze dirette anche per TSMC. Se la creatura di Chang ha potuto emergere e consolidare il suo dominio di mercato con il 90% della produzione di chip sotto i 10 nanometri è anche per un contesto geopolitico favorevole. Ora che la sicurezza nazionale prevale, TSMC è in una posizione scomoda: la sua ‘neutralità’ in termini commerciali è stata la chiave del suo successo, ma ora è diventata probabilmente una stigmate nel triangolo Stati Uniti-Cina-Taiwan. Nessuna azienda può continuare a prosperare in un contesto in cui la sua essenzialità è tale da renderla una scommessa troppo rischiosa su cui fare affidamento.

Ecco perché molti dei competitor, tra cui Intel e Samsung, sono pronti a capitalizzare la ‘politicizzazione’ dell’industria a proprio favore. La corsa al reshoring o al friendshoring, con gli investimenti pubblici di Stati Uniti e Unione europea, ha obbligato TSMC a fare quello che non avrebbe mai fatto in un contesto normalizzato: investire in capacità all’estero (in Europa e Giappone), esportando la propria tecnologia, il know-how e gli investimenti per non lasciare troppo terreno alle aziende americane, coreane ed europee. È anche vero che la domanda di chip è destinata ad aumentare e per non rischiare uno shortage come nel periodo pandemico, un aumento della wafer capacity globale sarebbe stata comunque fisiologica.

E la domanda di chip avanzati, logici per il supercomputing e l’IA è in costante crescita. Nel 2022 rappresentavano già il 41% circa delle vendite di TSMC, seguite da quelle per gli smartphone (39%). La posizione di TSMC come leader del mercato foundry, dunque, rende l’azienda comunque in una posizione favorevole per beneficiare del boom dell’intelligenza artificiale nei prossimi anni. Inoltre, è altresì improbabile che i clienti consolidati dell’azienda taiwanese – come Nvidia, Apple e Qualcomm – possano decidere di rinunciare alla relazione e allocare i propri ordinativi ad Intel o a Samsung proprio per l’ecosistema consolidato che ruota intorno alle fonderie di TSMC oltre al fatto che la creatura di Chang detiene un tasso di rendimento per i nodi avanzati che i due concorrenti non hanno.

Infine, le difficoltà che incontra la fonderia in Arizona (da $12 miliardi, 40 in totale considerando la seconda in costruzione), con capacità da 5 nanometri (3 nm dal 2026), per la mancanza di cultura aziendale e personale qualificato sono eloquenti delle condizioni del successo che Chang ha illustrato e che rappresentano probabilmente il motivo principe per cui TSMC aveva esitato, in passato, a tentare di replicare altrove i suoi successi nazionali. Ma resta un altro indizio per cui quei tempi sono ormai un lontano ricordo.

Non resta che provare a persuadere la politica per evitare di trascinare l’industria dei chip – e TSMC in particolare – in un vortice di tensioni prima del punto di non ritorno. È in questo direzione che va inquadrata la scelta del governo di Taipei di inviare, per la prima volta, proprio Chang come rappresentante speciale al prossimo summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) che si terrà a San Francisco dall’11 al 17 novembre. All’incontro saranno presenti anche Joe Biden e Xi Jinping e si incontreranno nuovamente dopo più di un anno.

Se c’è un uomo che può mediare tra i due leader, dal pulpito della sua conoscenza dell’industria e della tecnologia su cui si gioca il destino delle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, è proprio lui. Il futuro del mondo, e della sua azienda, sono fortemente intrecciati.

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