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Green deal, la strategia industriale che protegge il clima. Il commento di Paganetto

La scelta europea di associare le politiche climatiche allo sviluppo rappresenta in buona sostanza la nostra politica industriale. È una scelta assai importante per contrastare le tendenze alla stagnazione presenti nell’economia, consentire maggiore certezza di aspettative nei mercati e in particolare in quello dell’energia, riportare l’Europa sulla frontiera della tecnologia. Il commento di Luigi Paganetto, presidente della Fondazione Economia Tor Vergata

Le politiche climatiche hanno un robusto ancoraggio scientifico nelle rilevazioni dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc).

La comunità scientifica internazionale esprime, da tempo, in maniera concorde, l’esigenza di contenere le emissioni di gas serra per evitare aumenti della temperatura media del pianeta oltre i 2° centigradi e le conseguenze disastrose che, in mancanza, ne nascerebbero.

La questione è ovviamente globale e coinvolge i Paesi sviluppati che hanno ampiamente contribuito a determinare l’effetto serra, e continuano a farlo, come Cina e Usa ma anche quelli in via di sviluppo ai quali si chiede di non seguire quest’esempio, ma che non ricevono in cambio un adeguato sostegno.

Le politiche climatiche sono il frutto di accordi internazionali, il più recente dei quali la Cop28 (Dubai 2023), ha ribadito l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura del pianeta ma ha offerto assai poco ai Paesi più poveri.

Agli impegni presi in queste sedi, sono purtroppo seguiti, il più delle volte e nei diversi Paesi, interventi insufficienti ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi prefissati per il controllo della CO2 in atmosfera.

Inoltre, anche se si continua ad affermare l’esigenza di un’uscita dai combustibili fossili, non è chiaro quali ne saranno le modalità e i tempi con un’unica certezza: che saranno molto lunghi anche quando assieme alle rinnovabili si conteggiano tra gli strumenti l’idrogeno e il nucleare.

Basta pensare che, mentre si predica l’uscita dai combustibili fossili, lo scorso anno il consumo di carbone ha raggiunto la sua punta massima.

In questo quadro, l’Europa ha una posizione peculiare perché: 1 – pur contribuendo per il solo 8% alle emissioni di CO2, è fortemente impegnata nel contrasto al cambiamento climatico, anche per aver contribuito massicciamente in passato all’effetto serra; 2 – fin dall’inizio le politiche climatiche europee hanno esplicitamente associato l’obiettivo della riduzione delle emissioni di CO2 con lo sviluppo e l’equità distributiva.

Se questo è vero, è altrettanto vero che con l’avvicinarsi delle elezioni europee si assiste a una progressiva radicalizzazione del dibattito sulle politiche climatiche che tende ad evidenziarne i costi e a ridurre il consenso dei cittadini.

Ciononostante, il Green Deal, il provvedimento più recente varato dalla Ue, ribadisce l’approccio a favore dello sviluppo fin dal titolo, assai significativo, A Growth Strategy that protects the Climate. Prevede, attraverso il Fit for 55, un’accelerazione degli interventi in materia climatica, con riduzione delle emissioni del 55% al 2030 e la conferma della scelta di associare strettamente questa riduzione a un obiettivo di sviluppo sostenibile.

Si tratta però di un’accelerazione difficile da realizzare nei tempi previsti e che impone costi considerevoli sia per via degli investimenti sostitutivi delle vecchie tecnologie nel settore energetico, che nel settore dell’efficienza energetica delle abitazioni e nei trasporti. Sono costi che sono stati calcolati in più di 400 miliardi aggiuntivi l’anno.

Di tutto questo occorre prendere atto, insieme alla riduzione del consenso sulle politiche climatiche, senza rinunciare a perseguire l’obiettivo della transizione verso emissioni zero facendolo con più efficacia e rendendone, allo stesso tempo, espliciti i tempi e le modalità.

Compito della politica è di trasformare la visione delle politiche climatiche dalla “Black Box” attuale in una visione aperta e comprensibile in cui i cittadini possano valutare assieme costi e benefici.

Siamo di fronte a un momento di forti rivolgimenti e di interventi di grande importanza nell’economia e nella società, ma anche di grandi opportunità, che va spiegato. La scelta europea di associare le politiche climatiche allo sviluppo rappresenta in buona sostanza la nostra politica industriale.

È una scelta assai importante per contrastare le tendenze alla stagnazione presenti nell’economia, consentire maggiore certezza di aspettative nei mercati e in particolare in quello dell’energia, riportare l’Europa sulla frontiera della tecnologia.

Essa ha già trovato un’importante applicazione nel NextGenEU, dove la transizione energetica e digitale conta per più del 50% dei circa 600 miliardi complessivi di finanziamenti previsti, ma anche nel “Repower EU”.

Il limite di questi interventi è di aver avviato una politica d’investimenti in cui prevale l’esigenza di sostenere la domanda come, voleva d’altra parte, il momento della crisi post Covid-19.

Oggi ci dobbiamo preoccupare di riorientare questa stessa politica verso investimenti che, nel confermare l’impegno sulle politiche climatiche, puntino sulla capacità di produrre innovazione del settore privato che è la strada maestra per aumentare la produttività dell’economia europea, vero tallone d’Achille, in particolare dell’area dell’euro.

Potrebbe esser ripresa in quest’ottica la scelta fatta a suo tempo da Juncker dello stimolo agli investimenti privati realizzato attraverso un intervento di garanzia della Bei. Quel che è certo è che l’intervento a scala europea è indispensabile.

Va rafforzata in questa prospettiva l’iniziativa dell’Ipcei che sostiene le imprese che partecipano a importanti progetti europei di interesse comune. Così come benvenuti sono il Critical Raw Material Act e il Net Zero Industry Act che intende assicurare entro il 2030 il 40% di produzione europea delle tecnologie strategiche per le emissioni zero.

Lo Step (Strategic Technologies for Europe Platform), attivato a fronte della mancata realizzazione di un Fondo sovrano europeo, intende sostenere con le risorse disponibili gli investimenti nelle tecnologie strategiche per la competitività europea.

Non può sfuggire ad alcuno che è difficile procedere sulla strada dei grandi cambiamenti legati alla transizione energetica senza un consistente impegno di fondi comuni europei. Essi trovano, però, un limite importante nella difforme volontà di indebitamento dell’insieme dei Paesi europei.

Detto ciò, non può sfuggire che la nostra scelta di vivere in una società socialmente inclusiva richiede che i costi della transizione energetica non siano posti a carico della parte più debole della popolazione.

Serve, per evitarlo, un grande impegno formativo sulle nuove tecnologie e sistemi adeguati di tutela del lavoro piuttosto che una mera politica di sussidi.
Si tratta di una scelta indispensabile per ritrovare l’ampiezza di consensi necessari per portare avanti le politiche climatiche.

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