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Quanto è importante la diplomazia in tempi di guerra. Scrive Teodorescu

Di Loredana Teodorescu

In tempi di guerra e di crisi, la diplomazia dovrebbe acquistare un maggior protagonismo, perché la diplomazia è dialogo e empatia, è interlocuzione fra le parti, la modalità per ristabilire comuni regole di comportamento, per reintegrare un ordinamento internazionale condiviso. Il punto sulla riflessione avviata dall’Istituto Luigi Sturzo di Loredana Teodorescu, responsabile Affari europei e internazionali dell’Istituto e presidente di Women in international security (Wiis) Italy

Se, secondo Cicerone, in bello silent leges (in guerra le leggi tacciono), è alla funzione “costituente” della diplomazia che si deve oggi più che mai ricorrere, in Ucraina come in Medio Oriente, a quella bilaterale, propriamente negoziale, deve affiancarsi quella multilaterale, normativa, in funzione di mediazione e garanzia esterna.

Nel momento in cui ci si interroga sull’apparente assenza della diplomazia, in Ucraina e nel Medio Oriente, l’Istituto Luigi Sturzo ha promosso un incontro fra alcuni ambasciatori che, avendo terminato la loro carriera, dirigono o collaborano con i nostri centri studi di politica estera. Ne è emersa la generale considerazione che, come l’aria, se ne avverta la necessità quando viene a mancare.

In tempi di guerra e di crisi, cioè, la diplomazia dovrebbe semmai acquistare un maggior protagonismo, perché la diplomazia è dialogo e empatia, è interlocuzione fra le parti, la modalità per ristabilire comuni regole di comportamento, per reintegrare un ordinamento internazionale condiviso. Luigi Sturzo diceva che “non reggono quelle teorie di guerra che prescindono dalla costruzione internazionale”. Papa Francesco ci ricorda oggi che il perseguimento della pace richiede “coraggio e creatività”.

Compiti che vanno appunto affidati alla diplomazia. Se non è riuscita a prevenire gli attuali conflitti, né a imporre ora un cessate il fuoco, è perché è venuta a mancare la convergenza delle intenzioni dei principali protagonisti internazionali. Una conseguenza anche del deficit di leadership e governance verificatosi dopo la fine della Guerra fredda.

Guardando a esempi del passato, quali la mediazione promossa dall’Italia in Mozambico, e le guerre nei Balcani degli anni 90 alle quali, pur con tutte le difficoltà del caso e le sfide tuttora presenti, si è riuscito a porre un freno, evidente è oggi la mancanza di un elemento fondamentale: quella mobilitazione corale di attori che agiscano in sinergia, indispensabile per assicurare condizioni di pace equa e duratura.

Se l’Unione europea è tuttora ostacolata dall’atteggiamento di Putin e i passati tentativi anche italiani (come quello di Pratica di Mare) di coinvolgere la Russia sono falliti miseramente, dobbiamo constatare che tanti altri Paesi, quali la Cina, l’India, il Brasile, esitano ancora a prendere posizione. La complessità della nuova situazione mondiale rischia di produrre ulteriori tensioni, soprattutto laddove le esigenze dei Paesi emergenti non si sentono adeguatamente soddisfatte.

Nonostante la sua coesa risposta all’aggressione russa in Ucraina, l’Unione europea fatica a rivestire quel ruolo da protagonista sulla scena mondiale che le spetta, oltre che necessario per garantire pace e sicurezza nel suo stesso vicinato. Una condizione da ricollegare innanzitutto all’assenza di una percezione condivisa della minaccia, piuttosto che ai suoi noti limiti di bilancio e di competenze che non le consentono ancora di operare come una comunità politica influente sulla scena mondiale.

Le imminenti elezioni europee, con le ipotizzate riforme istituzionali, dovrebbero costituire la premessa per l’elaborazione di una politica estera, di sicurezza europea meglio coordinata e credibile. Il progetto della comunità di difesa di De Gasperi degli anni 50 è ancora particolarmente attuale. Nonostante le incertezze del momento, la diplomazia torna pertanto a essere un fattore fondamentale in termini continentali quanto per la ricomposizione del sistema internazionale.

Oltre a continuare a operare per ridisegnare una nuova architettura di sicurezza in Europa e in Medio Oriente, dovrà necessariamente riuscire a coinvolgere una Russia che stenta a riconoscere l’Ue come interlocutore, preferendo trattare direttamente con Washington, nella ricomposizione di quel rapporto bipolare fra due superpotenze che le circostanze dovrebbero aver superato. Si tratta essenzialmente, è stato detto, di tornare alla casella di partenza della Carta delle Nazioni Unite che la Guerra fredda aveva sclerotizzato. E, in Europa, all’Atto finale di Helsinki del 1975, che Putin oggi ostentatamente disdegna.

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