Durante la riunione del Quad, al presidente Biden sfugge (forse) una preoccupazione sulla Cina catturata da un microfono. Per Washington l’assertività cinese mette alla prova gli equilibri indo-pacifici e le partnership americane
Durante la riunione del Quad dei giorni scorsi, il presidente statunitense, Joe Biden, è stato colto in un “hot mic” a fare dichiarazioni piuttosto schiette sulla Cina, affermando che Pechino sta “mettendo alla prova” i Paesi della regione con un comportamento sempre più aggressivo. Un “hot mic”, ossia un microfono aperto, cattura commenti non destinati al pubblico, rendendo certe affermazioni particolarmente significative poiché riflettono pensieri autentici che non verrebbero altrimenti esplicitate (forse, perché in alcuni casi potrebbero essere usati come scusa per veicolare determinati messaggi).
Che le parole di Biden escano mentre il leader americano era impegnato nel vertice con i partner di Australia, Giappone e India è ancora più significativo (e ancora di più se si considera che con l’organizzazione a Wilmington, Biden ha voluto dare all’incontro un tocco ancora più personale).
Le affermazioni di Biden assumono un peso ancora maggiore poi se collocate nel contesto delle recenti operazioni militari di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, che richiamano le attività nel Mar Cinese Orientale di oltre un decennio fa. La Cina ha intensificato la sua presenza militare nella regione, dispiegando simultaneamente tre portaerei della marina dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA-Navy) per la prima volta in 97 anni di storia, e conducendo esercitazioni congiunte che dimostrano la prontezza operativa delle sue forze armate.
In questo contesto, la dichiarazione congiunta del Quad, pur senza menzionare direttamente la Cina, esprime comunque “seria preoccupazione” per la situazione nei mari Cinese Orientale e Meridionale, condannando l’uso pericoloso di navi della guardia costiera e della milizia marittima (non a caso, uno degli step up di cooperazione militare decisi a Wilmington riguarda proprio l’inizio di attività di interoperabilità tra le guardie costiere del Quad). Lo statement congiunto, ribadisce inoltre l’importanza della risoluzione pacifica delle dispute marittime, del rispetto del diritto internazionale e della libertà di navigazione, sottolineando che tali controversie devono essere risolte pacificamente.
Le recenti attività della Marina cinese hanno mosso anche una formazione navale guidata dalla portaerei Liaoning attraverso le acque a nord-est di Taiwan (questo ormai parte del nuovo status quo imposto da Pechino), da dove poi ha proseguito la navigazione verso sud-est dell’isola giapponese di Yonaguni (questo invece una rarità che ha comportato reazioni diplomatiche da parte di Tokyo). Negli ultimi anni, le portaerei cinesi Liaoning e Shandong hanno attraversato più volte lo Stretto di Taiwan, intensificando la pressione militare e politica su Taipei, ma quasi mai le acque contigue a quelle territoriali nipponiche.
L’incremento delle attività navali cinesi nelle acque circostanti Taiwan e nel Pacifico occidentale evidenzia un cambiamento nella strategia di Pechino, che sembra sempre più disposta a dimostrare la propria presenza militare – anche in risposta alle operazioni statunitensi nella regione, a loro volta organizzate per evitare che quelle acque diventino territorio egemonico del Partito/Stato, che ne rivendica sovranità in diverse zone. Quelle che si creano sono situazioni complesse, che riguardano un ambiente securitario che arriva rapidamente fino al tessuto geoeconomico, vista la sensibilità di certe aere per i commerci globali.
Per esempio, per il 24 e 25 settembre, la Cina ha imposto un blocco insolito su gran parte del Mare di Bohai, istituendo sette zone di divieto di navigazione tramite un avviso emesso dall’autorità marittima locale. La causa del blocco, che ha sollevato interrogativi sulla natura dell’attività militare in corso, non è stata resa pubblica. Il Mare di Bohai, situato nella Cina nord-orientale, è strategicamente importante per il paese, ospitando porti chiave e risorse naturali. Questo tipo di imposizioni ha però effetti a cascata sull’economia internazionale, come hanno dimostrato i blocchi legati al Covid (e contribuisce a spingere verso politiche di de-risking).
Dal 2008, le operazioni cinesi nella cosiddetta “zona grigia” — azioni paramilitari progettate per evitare un confronto militare diretto e azioni a cavallo tra il contesto securitario e civile (economico-commerciale) — riflettono un paradigma ben collaudato di pressione, utilizzando la milizia marittima e le forze navali per imporre la propria supremazia. Sebbene la strategia cinese si stia adattando a causa delle contromisure messe in atto da Filippine e Giappone, Pechino sembra sempre più disposta a confrontarsi direttamente con i Paesi limitrofi e con gli Stati Uniti.
L’escalation cinese è parte di una strategia più complessa che comprende varie sfaccettature (azioni “multifaceted”, in gergo tecnico), tra cui la cooptazione, la coercizione e l’imposizione di nuovi equilibri regionali, nuovi status quo. L’interesse crescente della Cina per il Pacifico meridionale e centrale si inserisce anche nel piano per acquisire un vantaggio strategico in caso di conflitto su Taiwan, che rimane un interesse nazionale esistenziale per il Partito Comunista Cinese.
Come dimostrano le recenti esercitazioni Joint Sword-2024A, condotte pochi giorni dopo l’insediamento del nuovo presidente di Taiwan, la Cina è pronta a eseguire operazioni militari di grande portata con breve preavviso, avendo ormai fatto del dispiegamento rapido una delle prerogative delle proprie forze armate (alla pari dei programmi del Pentagono). Queste attività mirano a indurre i vicini a sottovalutare il potenziale bellico cinese, mentre la realtà è che la difesa cinese è pronta per una rapida mobilitazione e aggressione. Nel progetto del leader Xi Jinping c’è di aver acquisito massima capacità di azione entro il 2027.
Spiega un esperto del mondo della Difesa indo-pacifica, che preferisce non essere menzionato per ragioni professionali, che di fronte a questi sviluppi, gli Stati Uniti e i loro alleati – compresa l’Italia, recentemente protagonista di manovre nel Mar Cinese con Usa e Australia – “sono chiamati a riconsiderare la loro strategia, adottando un approccio sofisticato e multidimensionale alla diplomazia e alla presenza navale, per contrastare il nuovo modus operandi cinese, sempre più caratterizzato dall’assunzione di rischi elevati e da una crescente inclinazione al confronto militare diretto: in effetti, Pechino sta appunto mettendo alla prova il sistema politico-culturale-strategico-militare che compone il modello democratico”.