Per Nicola Pedde, esperto di Iran e direttore dell’Institute for Global Studies, si potrebbe innescare un meccanismo di colpi e controcolpi che è l’inizio della deriva verso un conflitto regionale: “Di sicuro entriamo in una nuova fase, con una nuova postura anche iraniana, che dichiara infatti ‘ci sentiamo in guerra’, e questo fa presupporre un più ampio coinvolgimento di tutti gli attori che compongono l’Asse della Resistenza”
Israele ha giurato che l’Iran dovrà affrontare “conseguenze” dopo che martedì ha lanciato una raffica di missili contro Tel Aviv e diverse altre zone dello stato ebraico. In un discorso televisivo dopo l’attacco subito, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Teheran ha commesso un “grande errore” e “pagherà per questo”, aggiungendo un messaggio verso “chi ci attacca”: “Noi attacchiamo loro”. La missione iraniana presso le Nazioni Unite, nel frattempo, ha dichiarato: “Se il regime sionista dovesse osare rispondere o commettere ulteriori atti di cattiveria, seguirà una risposta successiva e schiacciante”. Sembra l’innesco di un’escalation definitiva verso un conflitto regionale esteso.
L’attacco del primo ottobre “è infatti diverso da quello di aprile”, fa notare Nicola Pedde, esperto di Iran e direttore dell’Institute for Global Studies, perché non è stato annunciato, ha avuto Tel Aviv al centro degli obiettivi (non aree remote del Paese), ed è stato condotto con missili balistici e ipersonici — dunque vettori in grado di bucare le difese aeree israeliane. Non ci sono ancora indicazioni precise sui danni effettivi, ma sembra che sia la base aerea di Nevatim a nord di Tel Aviv che il quartier generale del Mossad siano stati colpiti. Quello che è certo è che gli oltre cento missili iraniani sono caduti su Israele in uno dei momenti di massima tensione per il Medio Oriente moderno.
“La Repubblica islamica vive un momento complesso, aveva accettato di evitare la reazione dopo l’uccisione a Teheran del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, e gli Stati Uniti erano verosimilmente riusciti a gestire la situazione, convincendo l’Iran dei benefici che questo auto controllo avrebbe prodotto per la riapertura di un negoziato (sul Jcpoa, ndr). Ma poi lo sviluppo della situazione in Medio Oriente ha aumentato la frustrazione interna alla leadership iraniana, consapevole che un negoziato non sarebbe rientrato nell’agenda bilaterale”, spiega Pedde a Formiche.net. Frustrazione che “è cresciuta esponenzialmente dopo l’avvio della guerra in Libano contro Hezbollah e il bombardamento a Beirut dove è rimasto ucciso Hassan Nasrallah”.
C’è un nuovo paradigma di combattimento convenzionale, con Israele che ha alzato l’intensità, e modificato il processo decisionale iraniano sulla reazione — definitivamente con l’eliminazione di Nasrallah. “In sintesi — continua Pedde — sono venute meno le prospettive e le opportunità di gestire il programma politico con cui il presidente Massoud Pezeshkian aveva vinto le elezioni, aprendo al ritorno a un negoziato con la Comunità internazionale. Un programma ribadito anche nei giorni scorsi durante la Unga”.
Per Pedde, gli attacchi di ieri rappresentano un’evoluzione “molto negativa” della politica iraniana, “con il presidente Pezeshkian che diventa di fatto commissariato”, nonostante l’attribuzione di fiducia concessagli dalla Guida Suprema, che – spiega l’esperto – “spesso affronta le circostanze con approccio pragmatico, lasciando spazio alle iniziative dei presidenti che cercano dialogo con gli Usa, ricordandone però le criticità: in sintesi, la Guida dice che i successi saranno condivisi mentre gli insuccessi colpe del presidente”.
È dunque mancato il terreno per costruire effettive progettazioni, forse anche per l’avvicinarsi di Usa2024? “Gli Stati Uniti non hanno avuto volontà e capacità di spingere su un negoziato, con una freddezza iniziale passata alle accuse di forniture di missili iraniani alla Russia, e questo ha portato l’Iran e ritenere che gli americani volessero ridefinire i termini dell’eventuale negoziato, inserendo non solo il programma nucleare, ma anche la questione missili e droni e l’arsenale non convenzionale di Teheran. Tutto ciò ha portato la Repubblica islamica alla sfiducia sul dialogo, visto che avrebbe rappresentato una resa di fatto per gli iraniani”.
È uno sviluppo che ha aperto gli spazi per la componente più legata al settore difesa iraniana a spingere per un mutamento della strategia, anche per rispondere alle critiche in seno all’Asse della Resistenza, che accusa il protettore iraniano di aver lasciato soli Hamas e Hezbollah contro Israele. “Per l’Iran si poneva il dubbio sul non reagire e perdere credibilità nei confronti della sua sfera di influenza, o reagire e aprire un altro fronte di crisi. Perché l’attacco contro Israele è esattamente quello che il governo Netanyahu aspettava, ossia avere il pretesto per aprire lo scontro aperto contro quella che viene considerata la testa del serpente”.
In questo tentativo di affrontare il problema alla radice, Netanyahu sapeva che avrebbe avuto necessità di una qualche occasione per avviare una campagna diretta, sulla quale coinvolgere anche gli alleati, in primis gli Usa, “riluttanti, a poche settimane dalle elezioni Usa2024, di farsi trascinare in un confronto”, spiega Pedde, tuttavia coinvolti per difendere lo Stato ebraico dall’attacco iraniano. “Ora – continua l’esperto – come l’Iran ha cambiato le regole dello scontro, lo stesso farà Israele: non sarà più un’azione simbolica, come nell’aprile scorso, ma sarà diretta verso postazioni militari e in generale una risposta più muscolare”.
Per Pedde, questo potrebbe innescare un meccanismo di colpi e controcolpi che è l’inizio della deriva verso un conflitto regionale: “Di sicuro entriamo in una nuova fase, con una nuova postura anche iraniana, che dichiara infatti ‘ci sentiamo in guerra’, e questo fa presupporre un più ampio coinvolgimento di tutti gli attori che compongono l’Asse della Resistenza”.
(Foto: X, @netanyahu, il primo ministro durante il discorso ai cittadini di martedì sera, dopo l’attacco iraniano)